Perché occuparsi oggi dei fatti italiani? È questa una domanda che ci si pone sempre più frequentemente, in Francia e altrove. L’Italia, vi spiegheranno i vostri interlocutori stranieri, conta meno che mai sulla scena internazionale. Arretra nell’economia mondiale. La sua capacità di attrazione intellettuale è in calo. Conta sempre meno anche in ambito scientifico, culturale o artistico. Nel suo insieme, poi, appare sempre più incomprensibile, anche a causa dei trionfi a ripetizione di Berlusconi, che all’estero viene generalmente visto come un pericolo o, nel migliore dei casi, come un ciarlatano.
L’Italia è invecchiata, irrigidita, ripiegata su se stessa, autistica. E l’aspetto più inquietante, aggiungono coloro che credono di conoscerne la storia, è che sta sprofondando nei suoi vizi peggiori e ancestrali: l’assenza di civismo, l’illegalità, la criminalità organizzata, la corruzione, la xenofobia, il razzismo, la ricerca dell’uomo della Provvidenza o, ancora peggio, la tentazione di un ritorno al fascismo. Il dato più sorprendente è che questa diagnosi è formulata, negli stessi termini, da gran parte dei miei amici italiani: intellettuali, accademici, politici, artisti, scrittori, uomini d’affari, anche se, a dire il vero, a farla sono soprattutto quelli che sostengono idee di sinistra. Non posso dire di avere riscontrato la stessa sindrome tra i miei conoscenti di destra.
Chi formula queste diagnosi è disperato, inquieto, triste, depresso, quando non apertamente autolesionista. Trascorre il proprio tempo a elencare i difetti dell’Italia, a lamentarsi dell’ignoranza generale dell’opinione pubblica, a preoccuparsi delle derive del proprio Paese, a lagnarsi dell’italico provincialismo, a criticare l’eccessivo peso della Chiesa.
Perché allora interessarsi all’Italia, nonostante tutto? La si visita soltanto per il suo immenso patrimonio artistico, per ammirare i suoi paesaggi, per approfittare della sua bellezza e assaporare la sua gastronomia? È un Paese che stimola ormai soltanto la curiosità degli storici? La si considera soltanto per alcune eccellenze produttive, ad esempio, nel campo dei beni di consumo, dell’abbigliamento, della moda o della meccanica di precisione? Credo la si debba smettere con queste percezioni piuttosto miopi e univoche della realtà italiana.
Mentre si appresta a celebrare i centocinquant’anni dall’Unità, nonostante tutti i suoi handicap e i suoi problemi (di cui comunque non ha il monopolio in Europa), l’Italia costituisce un osservatorio davvero privilegiato. Lungi dal rappresentare un’enigmatica anomalia, appare piuttosto come il Paese che, più di ogni altro, registra con estrema sensibilità la trasformazioni contemporanee della politica, della società, dell’economia e della cultura. Appare quindi come un terreno di sperimentazione – con indubbie specificità e con un’intensità eccezionale – delle tendenze contraddittorie che attraversano e agitano i nostri regimi politici: i tentativi di rinnovare la democrazia liberale e rappresentativa, le pulsioni dell’antipolitica, la gestazione della democrazia partecipativa.
Un Paese, dunque, che resta ambivalente e incerto. E proprio per questo appassionante.
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