Viviamo un’età di contraddizioni e paradossi, come in passato era accaduto soprattutto in momenti di profonde transizioni, negli assetti geo-politici come nelle mentalità diffuse. In diversi Paesi – si pensi alla Spagna nell’Unione europea o agli Stati Uniti oltre oceano – ci si interroga sulla rivisitazione in atto nel rapporto tra comunità politiche e febbri di cosiddetto “sovranismo” essenzialista e sentimentale, ossia tra senso di cittadinanza e narrazioni (e contro-narrazioni) che si contendono l’influenza nel discorso pubblico. A questo dilemma non sfuggono le feste civili nazionali, come il nostro 2 giugno, anniversario dell’atto di fondazione della Repubblica nel 1946. Ci si chiede, in sostanza, se esse abbiano ancora un ruolo nelle comunità politiche post-moderne, rette su una concezione di cittadinanza che si esplica tramite un condiviso corpo di diritti e obbligazioni.
Si paventano le implicazioni di una “democrazia sentimentale”, di cui movimenti e linguaggi populisti si servono nella costruzione di legami di natura emotiva. In realtà, neanche gli Stati democratici del tempo presente, quando la comunicazione politica è divenuta sempre più un insieme di linguaggi simbolici e ritualizzati, sembra possano fare a meno di feste civili grazie a cui corroborare i legami propri di una solidale comunità politica. Le feste civili nazionali rappresentano una sorta di termometro della “febbre politica”, di conflitti di memoria e rivisitazioni, usi impropri del passato e della storia.
Quest’anno si arriva al 2 giugno in un momento di grave crisi politica e morale (e istituzionale), mentre ci si avvicina a nuove elezioni che rischiano di trasformarsi anch'esse in un referendum, ma questa volta a favore o contro l'Europa. Erano diversi anni che l’anniversario non veniva utilizzato da una o più forze politiche per chiamare a raccolta i propri militanti in piazza: il Movimento 5 Stelle in modo eclatante e al tempo stesso ondivago (come riflesso della crisi di governo e delle prerogative costituzionali a tale scopo esercitate dal presidente Sergio Mattarella), la Lega nel vivo di una permanente mobilitazione (non senza dissimulare recenti dinieghi e prese di distanza). Si antepongono simboli e linguaggi identitari rispetto a ciò che invece dovrebbe rappresentare l’immagine di una comunità politica che si riconosca nella cittadinanza repubblicana; oltre ogni legittima e comprensibile distinzione di parte. In realtà, tali dissociazioni si erano evidenziate anche in passato, poiché fin dalle sue origini la festa civile si prestò a conflitti e competizioni di natura ora politica (socialisti e comunisti, repubblicani perfino, che negli anni Cinquanta organizzavano manifestazioni autonome da quelle ufficiali) ora sociale e culturale (nel segno del pacifismo e dell’antimilitarismo, tra anni Sessanta e Settanta, in polemica con la tradizionale parata militare nella capitale).
Si antepongono simboli e linguaggi identitari rispetto a ciò che invece dovrebbe rappresentare l’immagine di una comunità politica che si riconosca nella cittadinanza repubblicana
Già dal 1948, in occasione delle celebrazioni del “primo” 2 giugno, la storia della Repubblica incrociò quella dei presidenti, a cui la Costituzione assegnò una funzione centrale nella ritualizzazione del “compleanno” originario, dato che il capo dello Stato «rappresenta l’unità nazionale» (art. 87). Sembra oggi che la politica sia così priva di autonomia e valori da imprimere non tanto una propria impronta alla rappresentazione del mito fondativo repubblicano (come in passato pure era accaduto) ma da sovrapporre i colori di parte a quelli di un più pervasivo patriottismo repubblicano; un sentimento indubbiamente ridestato, con intonazioni non sempre da tutti apprezzate, dalla ripartenza delle celebrazioni (dopo oltre venti anni di congelamento) volute dal presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Nel momento in cui l’anniversario della nascita della Repubblica sembra dunque prestarsi a inopportune sovrapposizioni di manifestazioni e simbologie di parte, l’anniversario dei settant’anni della nascita dello Stato democratico può al contrario divenire l’occasione per rimettere al centro di un interesse più largo le radici e gli ideali della nostra cittadinanza repubblicana. In un orizzonte europeo-americano e transnazionale, superando ogni forma di “eccezionalismo” italiano, occorre ripensare e mettere in correlazione le diverse memorie delle culture politiche con le narrazioni civili, istituzionali, letterarie e comunicativo-mediatiche. Possiamo ripartire dalla storia di quel 2 e 3 giugno 1946, giorni in cui prese avvio l’“invenzione” della democrazia italiana nel vivo della ricostruita Europa postbellica: la legittimazione popolare della nostra Repubblica avvenne nel concorso di una straordinaria partecipazione di donne e uomini alla campagna e alle pratiche elettorali. Esse sancirono gli esiti di una transizione democratica tutt’altro che scontata e negli anni successivi garantirono autorevolezza alla “repubblicanizzazione” di territori e di tante periferie di questo Paese, contribuendo ad affermare l’idea e le regole di una comunità politica in grado di gestire e neutralizzare i conflitti anche più disgregativi.
In un orizzonte europeo-americano e transnazionale, occorre ripensare e mettere in correlazione le diverse memorie delle culture politiche con le narrazioni civili, istituzionali, letterarie e comunicativo-mediatiche
Se lo scenario della Repubblica registra fattori evidenti di discontinuità col passato, sul piano tanto della prassi che degli attori, pare proprio che sul terreno delle feste civili la nuova classe politica si muova in mancanza del necessario discernimento: senza aver consapevolezza del patrimonio di storia e memorie che le istituzioni repubblicane compendiano ovvero utilizzando questa nostra festa civile in modo tale da offuscarne il significato e rafforzare il timore di un dirompente effetto di sradicamento nel senso di cittadinanza repubblicana. Nell’anniversario del 2 giugno, un giorno di festa civile forse senza eguali quanto a sedimentazioni nella mentalità popolare e potenzialità aggregative nella prospettiva che pare aprirsi, diamo invece spazio e voce alla storie plurali (individuali, generazionali, locali e regionali) che hanno concorso a creare il tessuto connettivo di un discorso pubblico altrimenti frammentato e senza baricentro storico-culturale. È il compito che una effettiva “storia pubblica” dovrà assumersi, mostrandosi attenta al rigore della ricostruzione documentaria come alla narrazione, al coinvolgimento dei cittadini nella tutela di una nostra peculiare tradizione civica[1].
[1] Il referendum del 2 giugno 1946. Nascita, storie e memorie della Repubblica è il titolo del progetto triennale di ricerca promosso dalla Società italiana per lo Studio della storia contemporanea (Sissco), finanziato dalla Struttura di Missione della presidenza del Consiglio per gli anniversari di interesse nazionale. Esso raccoglie circa 40 ricercatori di oltre una ventina di università (italiane e non).
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