C’è un aspetto che a prima vista appare del tutto paradossale nella recente discussione sugli effetti della pandemia sulla scuola. Tutti parlano di perdite educative, disuguaglianze crescenti ed effetti della didattica a distanza sulla dispersione scolastica. In realtà, a gran parte dei commentatori sembra stare a cuore soprattutto il destino dei test Invalsi. Di fatto, come avevamo già scritto qualche mese fa, la pandemia avrebbe potuto essere l’occasione per chiudere una volta per tutte la discussione sui test, separando il necessario (la scuola) dal superfluo (la valutazione censuaria standardizzata). Ciò non è accaduto. Al contrario, mentre altrove si alimentava il dibattito sull’uso improprio di uno strumento standardizzato per valutare realtà rese ancor più disomogenee dalla pandemia, in Italia, a partire dall’estate scorsa, si è assistito a una vera e propria campagna mediatica a sostegno della centralità del test come unico strumento necessario per capire gli effetti della pandemia.
Tale campagna, corredata da stime improbabili sulla «perdita di capitale umano» dovuta alla sospensione delle attività in presenza, si è riproposta a qualche mese di distanza con grida di allarme che hanno tentato invano di scongiurare l’annullamento delle prove per le seconde classi delle scuole superiori. Grida accompagnate da ulteriori numeri su una tipologia di dispersione scolastica che l’Italia è l’unico Paese al mondo a stimare: la dispersione «implicita» o «nascosta» è infatti un indicatore opaco, creato e calcolato solo dall’Invalsi.
Di fatto, la pandemia è divenuta l’occasione per chiudere il cerchio della «valutazione centralizzata di Stato», faticosamente costruita da circa un quindicennio. Ciò emerge sia dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sia dalle Linee programmatiche del ministero dell’Istruzione. Vi si prefigura la «generalizzazione» dei test Invalsi (nella prima versione del Pnrr si prevedeva addirittura l’«obbligatorietà»), un nuovo ruolo dell’Istituto nei percorsi di formazione e carriera docente (Scuola di alta formazione) con lo sviluppo di un sistema di accreditamento professionale, e infine l’associazione tra gli esiti dei test degli studenti e il destino degli istituti scolastici, dirigenti e insegnanti.
Il documento chiave per capire di cosa stiamo parlando è ancora oggi un testo preparato nel 2008 per l’allora ministra dell’Istruzione Mariastella Gelmini da Daniele Checchi, Andrea Ichino e Giorgio Vittadini intitolato Un sistema di misurazione degli apprendimenti per la valutazione delle scuole: finalità e aspetti metodologici.
I risultati delle prove avrebbero sostituito le valutazioni dei docenti e il carattere "oggettivo" dei test avrebbe permesso di usarne i risultati per l’ingresso negli atenei e nel mercato del lavoroIn quel documento si prefigurava una fase transitoria in cui i test avrebbero dovuto essere sottoposti a campioni di studenti, per poi diventare di tipo censuario. Il passaggio dalla valutazione campionaria a quella censuaria avrebbe permesso ai test di diventare strumento di valutazione individuale degli studenti da inserire, con apposite modifiche legislative, nelle certificazioni rilasciate dalle scuole. In prospettiva i risultati delle prove avrebbero sostituito le valutazioni dei docenti. Il carattere «oggettivo» dei test avrebbe altresì permesso di usarne i risultati per la selezione all’ingresso negli atenei e in ogni caso per certificare le competenze all’ingresso nel mercato del lavoro. È assai significativo il passaggio in cui gli autori giustificavano la necessità di far svolgere le prove nelle scuole da personale specializzato esterno: «È naturale, infatti, che gli insegnanti locali abbiano un incentivo ad aiutare i loro studenti o a lasciare che si aiutino gli uni con gli altri copiando e questo, evidentemente, falserebbe i risultati della valutazione».
È veramente impressionante rileggere quel documento alla luce degli sviluppi successivi di Invalsi, puntualmente verificatisi. A partire dal 2004-2005, anno in cui vengono fissate le prime prove obbligatorie per le scuole del primo ciclo, i test Invalsi entrano a regime, in forma censuaria, Direttiva ministeriale del 2008, allo scopo di «rilevare gli apprendimenti degli studenti nei momenti di ingresso e di uscita dei diversi livelli di scuole, così da rendere possibile la valutazione del valore aggiunto fornito da ogni scuola».
Nello stesso documento di Checchi-Ichino-Vittadini si proponeva l’idea di «valore aggiunto», indicatore previsto proprio dal 2008 e introdotto poi nel 2016, con nome edulcorato di «effetto scuola». Si proponeva, inoltre, la valutazione centralizzata dei test, anche a risposta aperta, puntualmente realizzata con la Buona scuola (legge 107/2015), tramite l’avvio del sistema di somministrazione e correzione dei test computer based, insieme all’introduzione della prova di lingua inglese. Si trattava evidentemente di superare il problema del cheating, e arginare gli «imbrogli» degli insegnanti, vera e propria ossessione negli anni della presidenza Sestito (si veda per esempio qui). Nel 2018-2019 debutta, infine, e sempre a seguito delle novità normative introdotte dalla Buona scuola, la certificazione individuale delle competenze, firmate dal direttore generale Invalsi.
Può sembrare sorprendente come quel documento del 2008 abbia potuto costituire, nei fatti, l’architettura portante della politica scolastica degli ultimi decenni. Se ciò è accaduto, tuttavia, non è certo per le doti divinatorie dei suoi autori, ma semplicemente perché ciò che scrivevano allora è entrato nell’agenda politica dei ministri dell’Istruzione, prevalentemente di centrosinistra, che si sono avvicendati dal 2008 in avanti. Quell’agenda è stata attuata attraverso la costruzione di una struttura istituzionale unica nel quadro europeo, l’Invalsi, appunto, saldamente guidata non da esperti di educazione, ma da funzionari della Banca d’Italia che si sono succeduti alla presidenza per molti anni.
L’agenda politica ha trovato una solida sponda nell’opinione pubblica e nel sistema dei media. Il consenso pressoché unanime del mondo politico-sindacale e anche dell’accademia ha di fatto impedito lo sviluppo di una discussione pubblica su un tema così delicato. Da strumento di valutazione di sistema, basato – come i test Ocse-Pisa – su una rilevazione campionaria, siamo arrivati a uno strumento di misurazione e certificazione delle competenze individuali di 2,5 milioni di studenti l’anno, dai 7 ai 19 anni.
È sempre nel documento di Checchi-Ichino-Vittadini che tale trasformazione trova una spiegazione: i tre autori, nel 2008, proponevano di usare i risultati delle prove per premiare insegnanti e dirigenti, oltreché per distribuire fondi a scuole, sempre più autonome. È questo l’ultimo tassello mancante, a cui le riforme previste dal Pnrr sembrano voler porre rimedio.
I test standardizzati sono presentati come strumenti indispensabili di monitoraggio delle competenze, finalizzati al contrasto della povertà educativa, secondo i canoni di una valutazione compassionevoleI test standardizzati vengono presentati come strumenti indispensabili di monitoraggio delle competenze di base degli studenti, finalizzati ai nobili scopi di recupero e contrasto della povertà educativa, secondo i canoni di una «valutazione compassionevole», così ecumenica da essere accolta nelle proposte leghiste e in quelle del Forum Disuguaglianze Diversità.
I test assumono una connotazione del tutto diversa, quando inquadrati nel ridisegno complessivo del sistema di istruzione. Per illustrare il punto in sintesi estrema possiamo fare riferimento a un testo recente di Checchi:
«in altri Paesi la classificazione di "scuola di insuccesso" […] produce normalmente interventi didattici, che partono dall’invio di ispettori, possono proseguire con la rimozione del dirigente e possono culminare con la chiusura della scuola e/o la sua trasformazione istituzionale in partnership pubblico-privato (charter schools, academies). Nulla del genere è stato previsto nel contesto italiano. Non è chiaro se si tratti di una scelta strategica (nel qual caso ne sfuggirebbero i benefici attesi) o di una incapacità di raggiungere un consenso adeguato».
La pandemia è l’occasione da sfruttare per realizzare questo ultimo tassello, in tempi brevi e senza la necessità di raggiungere un «consenso adeguato» poiché l’emergenza pandemica non prevede dibattito.
In gioco è il passaggio da un assetto scolastico di tipo statale e unitario, a uno fortemente decentrato e basato su un'ibridizzazione pubblico-privata fondata sulle «comunità». Tale proposta, radicata soprattutto nell’area del cattolicesimo liberale, trova il suo fondamento nel principio di sussidiarietà. Competizione e valutazione compassionevole sono due aspetti della stessa visione. Come scrive Giuseppe Bertagna (Le due gambe del pluralismo, autonomia e libertà di scelta educativa, in Liberare la scuola, a cura di M. Campione ed E. Contu, Il Mulino, 2020), uno dei teorici della riforma scolastica Gelmini:
«Trasformare le scuole statali in scuole pubbliche. […] non si comprende perché se le scuole pubbliche istituite da enti privati possono scegliere i dirigenti, i docenti, il personale amministrativo e ricevere o no […] la fiducia dagli allievi e dalle famiglie, rispondendo nel bene e nel male di ciò che fanno, ciò debba essere impedito alle scuole pubbliche istituite dallo Stato, ma affidate in gestione alle societates professionali […] attive nei territori. Solo con questo riconoscimento è possibile accendere una competizione virtuosa tra scuole pubbliche statali e non statali, in termini di qualità offerta, percepita e valutata dei servizi e degli apprendimenti».
Il paradosso con cui abbiamo aperto questo articolo, non è dunque affatto un paradosso: non deve sorprendere che mentre il resto del mondo comincia a mettere in dubbio fondatezza e utilità dei test standardizzati (si veda qui, qui e qui), la discussione italiana sia invece concentrata a mostrare l’ineluttabilità dei test. Come scrive con sintesi efficace Roberta Calvano, «La legislazione più recente implicitamente sembra ammettere che la scuola non ha in sé gli strumenti per valutare il livello dei suoi discenti» (R. Calvano, Scuola e Costituzione tra autonomia e mercato, Ediesse, 2019). Poco importa che la scuola italiana, per oltre un decennio sia stata «curata» proprio con ricette basate sul «termometro» Invalsi. I difensori della valutazione «compassionevole», pronti adesso a denunciare disuguaglianze e «perdite degli apprendimenti», sono coloro che in questi hanno costruito il «termometro» e deciso le cure. Anziché chiedere loro conto dell’inefficacia del loro lavoro, si continua ad affidare a un inamovibile gruppo dirigente, circondato dalla consueta corte di consulenti accademici e società, diagnosi e cure.
Noi speriamo di aver contribuito a mostrare che la questione dei test Invalsi, lungi dall’essere meramente tecnica o didattica, è soprattutto una questione politica.
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