Cade quest’anno la ricorrenza del centesimo anniversario dell’evento che diede origine al regime fascista: l’associazione che riunisce gli storici delle società contemporanee, la Sissco, non poteva, naturalmente, trascurarlo. Costituendo ormai, però, gli studi sulle origini e lo sviluppo del fascismo e sulla vita degli italiani nel Ventennio, così come sull’antifascismo, un patrimonio ricchissimo, la Sissco, nel suo congresso annuale (Campus universitario di Matera, 14-16 settembre), ha deciso di concentrarsi su un aspetto diverso ma non meno decisivo: quello dei condizionamenti che il Ventennio fascista ha esercitato sulla società del dopoguerra.
Partiamo dalla più evidente eredità del fascismo, quella monumentale. Già essa mostra le contraddizioni e le difficoltà che gli italiani hanno avuto nel maneggiare il loro passato totalitario. Il Foro Italico e l’Eur, a Roma, ne conservano tracce ingombranti: un colossale obelisco di marmo dedicato a «Mussolini Dux», pavimentazioni con fasci littori, aquile, gigantesche “M” e citazioni mussoliniane, blocchi di marmo che narrano la storia della rivoluzione fascista, enormi bassorilievi con Mussolini a cavallo. Tutto è ancora lì. Nulla è stato abbattuto o cancellato, nessuna targa o cartello segnala che il Foro Italico era originariamente il Foro Mussolini, o che il quartiere dell’Esposizione Universale Romana 1942 avrebbe dovuto rappresentare la nuova «città modello» del regime. La scelta è stata quella di lasciare le cose com’erano; qualche volta, di emendarle, qualche volta di aggiungervi un elemento equilibratore. Nel 1960, ad esempio, in occasione delle Olimpiadi romane, venne cancellata la formula del giuramento fascista che si trovava nel piazzale antistante allo Stadio Olimpico, nonché la scritta che ricordava l’assedio economico di cinquantadue nazioni contro l’Italia. Nei blocchi di marmo che il regime aveva lasciato non scritti vennero aggiunti i riferimenti alla fine del regime, alla proclamazione della Repubblica, all’entrata in vigore della Costituzione. Anche la statua di un atleta che faceva il saluto fascista e che si intitolava Il genio del fascismo, presente sul fianco del Palazzo degli Uffici all’Eur, venne abilmente trasformata, con l’aggiunta di strisce alle mani e ai polsi, in un lottatore esultante per la propria vittoria, e ricevette il titolo, molto meno compromettente, di Il genio dello sport.
Il problema dei monumenti è lo specchio di qualcosa di più profondo. A pensarci bene, esso si lega alle forme di auto-assoluzione collettiva, tanto diffuse ancora oggi nel nostro Paese, che minimizzano il radicamento del fascismo o banalizzano il regime stesso, dandone un’immagine sostanzialmente innocua. A sinistra, fatica a morire una mitizzazione resistenziale e post-resistenziale che vede il popolo italiano sostanzialmente immune dal veleno fascista. La dittatura sarebbe stata imposta da una minoranza prevaricatrice, priva di consenso ed estranea alle grandi masse popolari. La Resistenza sarebbe stata la guerra di liberazione unitaria di questa massa di popolo, naturalmente democratica. A destra, invece, si è spesso presentato il fascismo come un regime dalle eccentriche manifestazioni ed esibizioni retoriche ma lontanissimo dal nazismo tedesco, un regime, al fondo, semplicemente autoritario e conservatore. Se Mussolini, anzi, non avesse compiuto l’errore dell’alleanza coi tedeschi, se avesse ascoltato la Chiesa cattolica, se si fosse fermato al 1936, avrebbe evitato le tragedie del razzismo e della guerra e il bilancio della sua dittatura non sarebbe stato complessivamente negativo. Un mito auto-assolutorio, quello degli «italiani brava gente», ha preso così il posto dei miti mascolini del fascismo. Quasi nessun’italiana o italiano può essere considerato davvero fascista. Le grandi manifestazioni “oceaniche” erano state sì piene di popolo, ma esso si era solo reso pragmaticamente e formalisticamente arrendevole ai tic retorici di un regime sostanzialmente di cartapesta. Per questo le politiche di epurazione sono state così difficili e così contrastate. Il mito del «buon italiano» ha così dato una nuova identità collettiva agli italiani, li ha traghettati nella vita democratica, ma al prezzo di una rimozione profonda (se non del vero e proprio oblio) di cosa il fascismo fosse realmente stato.
È giusto che una democrazia lasci sussistere l’esaltazione monumentale di un regime liberticida, guerrafondaio e razzista? Si deve cancellare tutto o va seguita la strada della storicizzazione, rendendo disponibili per ogni visitatore informazioni adeguate?
È giusto che una democrazia lasci sussistere l’esaltazione monumentale di un regime liberticida, guerrafondaio e razzista? Si deve cancellare tutto? Va invece seguita la strada della storicizzazione, rendendo disponibili per ogni visitatore informazioni adeguate sulle rimanenti tracce del passato? Oppure, l’italico modo “morbido” di affrontare il problema rappresenta una forma di banalizzazione intelligente che contribuisce a rendere innocuo il passato? La questione non si può risolvere moralisticamente. Denunciare, nella chiave di un rigorismo scandalizzato, gli aspetti di sopravvivenza dei simboli, come dei personaggi o degli istituti del “ventennio” non porta lontano. Se non sono dunque possibili scorciatoie moralizzatrici o generalizzazioni ideologiche, interrogarsi sui condizionamenti (anche oggettivi) esercitati dal “ventennio” è comunque questione cruciale, Solo un’adeguata valutazione del peso del passato fascista può permetterci una vera comprensione dei problemi, delle difficoltà, dei limiti, dei successi dell’Italia repubblicana.
Posso suggerire due aspetti sui quali gli studi attuali permettono di individuare un’eredità pesante: l’educazione alla democrazia e le istituzioni. Il fascismo arrestò quel tanto di sviluppo in senso democratico che la classe dirigente prefascista aveva avviato, interpretando in senso plebiscitario le esigenze di partecipazione popolare. Dopo la tragedia della guerra, gli italiani rifiutarono, e con nettezza, l’esperienza passata, ma restarono prigionieri, da un lato, a sinistra, di un massimalismo diffuso (una mentalità rivoluzionaria, spesso millenaristica, integralista e violenta) e, dall’altro, a destra, di un autoritarismo latente (ad esempio, quel cattolicesimo conservatore che si era costruito negli anni del consenso al fascismo). Gli stessi partiti antifascisti fecero propri molti aspetti del modello di organizzazione e mobilitazione delle masse inaugurato dal fascismo e si proposero come partiti-guida della nazione. Né va trascurato che il Paese avrebbe avuto per tutta la sua storia repubblicana – fattore assolutamente unico in Occidente – una significativa percentuale di elettori, tra il 5 e il 9%, che si esprimeva, ancora e nonostante tutto, a favore del fascismo, votando il Movimento sociale italiano.
Dietro le forme di una democrazia all’apparenza vitale e dinamica, il Paese sommerso appariva come una realtà molto meno rassicurante, con una significativa percentuale di elettori, tra il 5 e il 9%, che votava il Movimento sociale italiano
Insomma, dietro le forme di una democrazia all’apparenza vitale e dinamica, il Paese sommerso appariva, forse, una realtà molto meno rassicurante. Lo stesso modo in cui il fascismo finì condizionò profondamente anche le istituzioni della nuova democrazia. Dopo l’armistizio e la fuga del re a Brindisi, l’antifascismo chiese un atto costituzionale radicalmente creativo di una nuova realtà, un atto che invece la monarchia considerava intollerabile. La soluzione fu la celebre «svolta di Salerno», proposta da Palmiro Togliatti. Il leader comunista suggerì di rinunciare alla pregiudiziale antimonarchica e rinviare al dopoguerra (e a un’assemblea costituente) la scelta fra monarchia e repubblica. Il compromesso, sicuramente lungimirante, scambiava tuttavia la pregiudiziale istituzionale del Cln con quella costituzionale della monarchia. E difatti l’accordo finì per determinare la mancata rifondazione dello stato. Non si trattava più di costruire uno stato radicalmente nuovo, ma di sostituire una parte notevole di quello vecchio. Di conseguenza, mentre la Costituzione repubblicana enunciava i principi nuovi e solenni di una democrazia sociale antifascista, i codici, a cominciare dal penale e dal civile, rimasero gli stessi, così come la struttura amministrativa e molte istituzioni dello Stato.
Certo, tutta questa legislazione sarebbe stata progressivamente rivista ed emendata nei suoi aspetti meno accettabili per una coscienza democratica; certo, in alcuni casi le permanenze sarebbero state utilizzate proprio come strumenti per una democratizzazione della società italiana e istituti creati dal fascismo come l’Iri o l’Inps avrebbero avuto un ruolo decisivo nella realizzazione di politiche di Welfare; tuttavia, queste permanenze chiusero la porta a molte, più avanzate, potenzialità.
Questi fenomeni (ed altri relativi, ad esempio, ai modelli collettivi) sono stati analizzati dagli studi storici, anche se mai in chiave complessiva. Inoltre, è mancata una collocazione del problema in un’ottica comparativa. Quanto è avvenuto in Italia è così unico? Cosa è avvenuto in altre realtà, che pure sono uscite faticosamente da un passato totalitario o dittatoriale per approdare alla democrazia, come la Germania, la Russia e i paesi dell’Europa centro-orientale, la Spagna, il Portogallo? Di tutto questo discuterà il congresso della Sissco, cercando di compiere un primo tentativo di approfondimento di questa complessa materia, di intercettare e raccogliere gli stimoli che vengono dalle nuove ricerche e di mettere a confronto diverse generazioni di ricercatori.
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