L’elezione di Denny Mendez a Miss Italia il 6 settembre del 1996 costituisce un evento che sottopone la nostra memoria ad un dissonante esercizio tra passato e presente. Ripercorriamo la sua vicenda mentre oggi la competizione di un’altra finalista, Sevmi Fernando, viene imbrigliata entro un frame discorsivo estremamente simile. Le analogie con allora sono innumerevoli e importanti, tali da confondere, a distanza di 23 anni, la percezione lineare del tempo.
Denny, diciottenne di origine domenicana, è la prima – e oggi sapremo se ultima – reginetta nazionale non bianca, incoronata a conclusione di una controversa deliberazione incentrata sul colore della sua pelle e sull’ideale di bellezza nazionale. Denny è nera e sul suo corpo si consuma in quei giorni una diatriba sui confini dell’identità nazionale e la legittimità dei suoi tratti a impersonarla. Si contesta che una donna nera non incarni l’ideale “mediterraneo” con cui la femminilità italiana è codificata e canonizzata internazionalmente. Si dichiara che se viene eletta una donna nera a Miss Italia, ciò non avviene per i suoi meriti, ma perché un’ideologia buonista prevale sul valore della competizione. Si afferma che sebbene il Paese sia già ampiamente permeato da popolazioni e culture diverse, non è politicamente opportuno che venga rappresentato da una figura lontana e poco consona rispetto alle aspettative dell’opinione pubblica.
Paladini, interpreti e custodi di tale presunto immaginario collettivo sono innanzitutto i giurati: costoro a vario titolo voteranno contro Denny Mendez, in un coevo di polemiche e accuse di razzismo che porteranno all’espulsione di Bon Krieger e Alba Parietti (poi faticosamente riammessa in giuria), tra i più fermamente convinti che no, una donna nera non può essere Miss Italia, come a più riprese dichiareranno pubblicamente. Dei trenta giurati – tra cui anche Enrico Mentana, Bruno Vespa, Giancarlo Magalli, Yuri Chechi e le gemelle Kessler – solo in nove si dichiareranno a favore di Denny. Ma intanto l’attenzione mediatica sul concorso e le dichiarazioni a sfondo razziale sfavorevoli alla giovane sono tali da indurre il patron della manifestazione Enzo Mirigliani a intervenire. Questi non solo afferma di sperare sempre, nello spirito della manifestazione, che bellezza e povertà siano premiate – ribadendo così il valore di ascensore sociale e del connesso indice spettacolare racchiuso nella kermesse, ma soprattutto Mirigliani decide di impugnare il voto popolare come effettivo indicatore del sentimento nazionale. Il dato in effetti è estremamente chiaro: con oltre un terzo dei televoti (quasi due milioni di preferenze), Denny Mendez è di gran lunga la Miss Italia preferita degli spettatori. Proclamata tale nel 1996, Denny, inoltre, si classificherà quarta al concorso di Miss Universo l’anno successivo.
Sono trascorsi oltre due decenni da allora, un arco di tempo significativo per scrutare e decifrare le tensioni e le involuzioni che percorrono i mutamenti sociali di un Paese. Rileggendo quelle cronache e riflettendo sul presente, diversi aspetti della vicenda colpiscono. Innanzitutto, emerge la miopia della giuria, ovvero l’incapacità di opinionisti e personalità varie di interpretare e dialogare con la significativa componente progressista dell’opinione pubblica di allora. Tra i giurati di minoranza a favore di Denny, spicca la componente degli atleti (Max Biaggi, Paola Pezzo, Antonella Bellutti). Ma se la cultura sportiva, da Jesse Owens in avanti, insegna a essere concentrati sulla gara e non certo sui tratti somatici dei concorrenti, evidentemente ciò non avviene nel mondo dello spettacolo nazional-popolare nostrano. A fronte dei mutamenti sociali e demografici che, con una immigrazione significativa, il Paese già allora attraversava, si affermano pavide posizioni di retroguardia, peraltro in nome di un’interpretazione distorta del sentimento popolare evidentemente molto più variegato e aperto di quanto si presupponesse.
Inevitabile chiederci quanto la vicenda di Denny Mendez sia indicativa di una cultura televisiva intimamente connessa in Italia a quella politica, che ha condizionato anche a sinistra la capacità di tematizzare, costruire e sostenere una visione evoluta del Paese, e che comprendesse la sua componente multirazziale e multiculturale. Soprattutto, il piano simbolico attraverso cui si attestava il clima culturale di allora si è andato intrecciando con quello delle politiche reali: basti considerare quali saranno le politiche migratorie negli anni a venire, e soprattutto l’inadeguatezza della sinistra a fare propria e sostenere la campagna di riforma dell’istituto della cittadinanza italiana, ancora rigidamente incentrata sulla consanguineità.
Consanguineità, discendenza, nazionalità sono d’altronde tutti costrutti che si intersecano con la questione centrale al caso di Denny Mendez, quella della razza degli italiani. Questione che, con l’edizione 2019 del concorso, ci viene riproposta in tutta la sua attualità dai post svalutanti e denigratori sulla finalista Sevmi Fernando, in una disorientante dinamica di assonanze tra passato e presente, vecchi e nuovi media. Sul corpo della reginetta, allora come ora, viene tracciata la linea del colore, ritrovando quel solco di memoria fascista che, in nome della bianchezza degli italiani, consente di differenziare e ordinare gerarchicamente popolazioni e identità. In questo senso il posto di Denny non è sul podio, bensì codificato in un immaginario orientalista di matrice coloniale, che la canonizza come “venere nera”, “gazzella di Santo Domingo” – espressioni usate per apprezzarne la bellezza. Si tratta di un immaginario che popola le pagine patinate di quegli anni e che intreccia genere e alterità attraverso categorie precise, tra le quali spicca quella della donna esotica, oggetto di conquista, bellezza selvaggia da domare, fiera (altera e animale) che spaventa e attrae. Ecco dunque, che delegittimando quel titolo di Miss, in quanto non rappresentativo della bellezza italiana, si rimarca una linea del colore che occorre per differenza a definire la razza nazionale e a subordinare ciò che italiano non è e non deve essere.
In un Paese in cui l’eterogeneità somatica e culturale della popolazione si interseca con l’irrisolta questione del Mezzogiorno, foriera di laceranti forme di discriminazione verso i meridionali, la linea del colore articola un repertorio di immagini e costrutti funzionale a riscriverne l’identità nazionale. Sono esercizi di stile sulla razza messi in opera in un contesto, nazionale ma anche europeo, nel quale la valenza politica di tale categoria è censurata sia dal dibattito pubblico che accademico. Taciuta ma produttiva, la questione razziale e la differenziazione gerarchica che ne consegue continuerà a operare in maniera pericolosamente sempre più esplicita, sino a permeare il linguaggio e le pratiche quotidiane nell’Italia del presente.
La memoria con il caso di Denny Mendez si costruisce, dunque, seguendo traiettorie crescenti, per cui più che tenere vivo un ricordo che rischia di affievolirsi, con il trascorrere del tempo costatiamo i tratti aumentati e aggravati della questione razziale in Italia, assieme al perdurante, rigido disconoscimento di quale sia la sua effettiva, composita popolazione.
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