«Milan l’è un gran Milan» esclamò al microfono Carlo Balilla Bacarelli, commentando il clamoroso 7-1 inflitto dal Milan del trio svedese Gren-Nordahl-Liedholm alla Juventus capoclassifica il 5 febbraio 1950 al Comunale di Torino, davanti a 50.000 spettatori assiepati sugli spalti – tra i quali un entusiasta Fausto Coppi. Un «tremendo rovescio» per i bianconeri del giovane presidente Gianni Agnelli, che fece passare quasi inosservata la novità dell’evento. Si trattava infatti della prima partita trasmessa in diretta televisiva – in via sperimentale e per la sola zona di Torino – grazie al segnale emesso dal trasmettitore dell’Eremo e alle telecamere montate sulle scale dell’autoclave dei Vigili del fuoco parcheggiata all’esterno dello stadio.
Era l’alba di una rivoluzione che avrebbe portato il piccolo schermo a occupare un ruolo centrale nel mondo del calcio, sino a diventare decisivo per la sua sostenibilità economica, e che, al contempo, avrebbe fatto del pallone lo spettacolo principe della televisione.
Per comprendere la natura simbiotica di questo rapporto basta considerare che attualmente i ricavi da diritti tv e radio sono la principale fonte di entrata dei club di Serie A, che incide circa per il 40% dei loro bilanci (Report Calcio Figc, 2020) e che, influendo sulla fama dei protagonisti del mondo calcistico, il piccolo schermo gioca un ruolo fondamentale nella crescita del loro valore economico. Contestualmente le prime trenta posizioni della classifica dei programmi più visti di sempre della televisione italiana sono occupate esclusivamente da partite di calcio.
Si tratta di un circolo virtuoso a cui si era assistito precedentemente con altri media e sport: l’ascesa di popolarità del contenuto (sport) diventa fattore di attrattività per il supporto (a inizio Novecento la stampa di massa, dalla fine degli anni Venti la radio e successivamente la televisione), che valorizza ulteriormente il contenuto. Il calcio però ha portato in dote due caratteristiche che hanno contribuito a rendere centrale la sua appetibilità televisiva: da un lato è lo sport di massa per antonomasia, dall’altro resta uno sport di «prossimità» che esalta l’appartenenza identitaria, il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nei suoi colori, nelle sue bandiere.
Se calcio e televisione in Italia hanno dispiegato pressoché contemporaneamente il proprio potenziale d’altronde è anche per la loro complementarietà, immediatamente testimoniata dal successo di un programma come «La Domenica sportiva», andata in onda per la prima volta in via sperimentale l’11 ottobre 1953 e diventata una delle trasmissioni più seguite della tv pubblica (complice l’attesissimo annuncio delle quote vincenti della schedina del Totocalcio) nonché la più longeva.
Fino agli anni Settanta la Rai ha mantenuto il monopolio televisivo di un calcio che era seguito anzitutto per radio, con la diretta delle partite garantita da «Tutto il calcio minuto per minuto», magica narrazione dell’invisibile effettuata da aedi del pallone come Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Beppe Viola e, più recentemente, Carlo Nesti, Riccardo Cucchi e Francesco Repice (la prima voce femminile, quella di Nicoletta Grifoni, sarebbe arrivata soltanto nel 1988).
In televisione – salvo incontri eccezionali – si poteva assistere alla fine della giornata agli highlights o alla sintesi di una partita.
Una prima, significativa, svolta è intervenuta nel 1980, quando fu importato in Italia dal sistema anglosassone l'istituto giuridico dei «diritti televisivi in vendita»: la Rai e la Lega calcio stipularono un primo contratto per 3 miliardi di lire che garantiva alla televisione di Stato la titolarità in esclusiva delle immagini delle partite di campionato (mentre le Coppe europee iniziarono a essere suddivise tra la Rai e gli emergenti gruppi privati, Fininvest e Telemontecarlo). Un’accelerazione decisiva si è registrata a partire dai primi anni Novanta, quando gli accordi tra Lega Calcio e Tele+ del 1993 sancirono il superamento del principio che il calcio fosse visibile gratuitamente a tutti, introducendo il concetto di «diritti televisivi criptati» distinti dai «diritti televisivi in chiaro». Il 29 agosto 1993 lo scialbo 0-0 tra Lazio-Foggia aprì l’era delle pay tv in cui – tra diritti terrestri, satellitari e streaming – si sarebbero inserite Stream (1999), Sky Italia (2003) Mediaset Premium e Cartapiù (2005), Dahlia TV (2009) e Dazn (2018). Killer application per convincere gli spettatori ad abbonarsi alle pay tv, il calcio ha recentemente attirato anche l’attenzione dei giganti del web, a partire da Amazon che, dopo i diritti televisivi di Premier e Bundesliga ha scommesso – a partire dal 2021 – sulla Champions League da offrire ai clienti Prime Video, per competere con rivali agguerriti come Netflix e Disney+.
Mentre nuovi investitori si interessano al pallone qualche considerazione sulla teledipendenza del calcio è d’obbligo. Il timore paventato da molti addetti ai lavori all’inizio degli anni Duemila era che l’incontinenza televisiva avrebbe progressivamente spento ogni interesse, svuotato gli stadi e allontanato il pubblico, in una sorta di overdose letale per il calcio.
Tutto questo non si è verificato. L’impatto dei diritti tv sui bilanci delle squadre di serie A si è dapprima stabilizzato ed è andato contraendosi negli ultimi anni: dal 47% del 2014-15 al 40% del 2018-19 (Report Calcio Figc, 2020). Ugualmente gli stadi non si sono svuotati. La serie A tra il 2016-17 e il 2018-19 (ultima stagione pre-pandemia) ha visto un aumento di quasi 1,1 milioni di spettatori allo stadio mentre i ricavi da botteghino sono cresciuti del 32% superando i 300 milioni di euro (Report calcio Figc, 2020). Un trend confermato dagli ingenti investimenti e progetti dei club in impianti di nuova generazione: negli ultimi 10 anni sono stati inaugurati in Europa 160 nuovi stadi, con un investimento pari a 20,3 miliardi di euro e la Deloitte ha recentemente indicato in 4,5 miliardi di euro gli investimenti generabili dagli interventi programmati sugli stadi italiani nei prossimi anni.
Il calcio non ha conosciuto un’overdose ma un’evoluzione articolata che ha interessato il gioco (sempre più atletico e veloce), le sue regole (dai 3 punti a vittoria per favorire lo spettacolo ai rigori concessi con crescente liberalità), i suoi strumenti (uno su tutti: il Var), i suoi tempi (si gioca e si guarda senza soluzione di continuità) e, infine, la sua natura e il suo pubblico. Il calcio da rito di appartenenza si è trasformato in una sorta di grande varietà tecnologico, dominato da analisi statistiche e dal trionfo dell’iperreale. «La partita è sezionata, scannerizzata, replicata in ogni posizione, in una sorta di kamasutra visivo che alimenta se stesso» ha scritto Maurizio Crosetti. Uno spettacolo svuotato dei suoi contenuti identitari, simbolici e rituali, in cui il confine tra reale e virtuale è sempre più sfumato, come testimonia la moltiplicazione degli eventi ufficiali di eSports.
Una transizione verso il virtuale accelerata dalla pandemia: l’ultimo anno ha testimoniato come sia possibile fare a meno dell’evento dal vivo. Gli stadi, desolatamente vuoti, al più si sono riempiti di cartonati dei tifosi o di effetti audio per riprodurre i rumori del pubblico. E in attesa di tornare agli eventi in presenza si assiste a una vera e propria mutazione genetica del pubblico, favorita da una transizione generazionale che sta convertendo il tifoso in cliente. Il vecchio sostenitore di una squadra lascia spazio al più giovane follower di uno specifico calciatore (CR7 su Instagram ha 5,6 volte i follower della Juventus, Medel 18 volte quelli del Bologna in cui milita e così via) o di una squadra, che può essere cambiata senza troppo scandalo. A interessare sono anzitutto gli highlights, i contenuti veloci e le esperienze social da effettuare attraverso un secondo schermo utile a chattare, postare, consultare statistiche e informazioni in tempo reale.
In attesa di conoscere i tempi di riapertura degli stadi e le condizioni del nuovo accordo per i diritti televisivi della Serie A 2021-24 in discussione in questi giorni, riguardando le immagini del Comunale di Torino affollato di pubblico e avvolto nella nebbia il pomeriggio del 5 febbraio 1950, corrono alla mente le parole dell’ex allenatore del Bologna Renzo Ulivieri: «In tv si vede un altro sport, mica il calcio. La tv è un preservativo: annulla e mistifica».
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