Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 5 dicembre 1989: occupazione! Questa la parola d’ordine con cui studenti e studentesse dell’ateneo siciliano intendono esprimere, nell’azione, la loro opposizione rispetto ai cambiamenti in corso nell’università. Il sesto governo Andreotti, e segnatamente il ministro dell’Università e della ricerca scientifica Antonio Ruberti (Psi), intendono riorganizzare il sistema universitario su un principio di autonomia che conferisce ai singoli atenei ampia libertà, sia statutaria sia finanziaria.
La principale novità della proposta Ruberti risiede nella volontà di sollecitare gli atenei a provvedere da sé al recupero di risorse finanziarie per il regolare svolgimento delle attività scientifiche, inaugurando di fatto nuovi rapporti tra pubblico e privato e favorendo, più o meno direttamente, la possibilità di influire sugli orientamenti della ricerca da parte di interessi privati. Delle implicazioni più delicate di un simile riorientamento del sistema universitario, compreso il rischio di un detrimento delle facoltà umanistiche a favore di quelle scientifiche di ben maggiore interesse per i soggetti privati, si rendono prontamente conto studenti e studentesse dell’ateneo palermitano.
Un contesto, quello di Palermo e più in generale della Sicilia e del Sud, dove impegno politico giovanile e attivismo studentesco non si sono spenti nel presunto “riflusso” degli anni Ottanta. Al contrario: una linea di continuità collega le iniziative di denuncia dei poteri mafiosi ai tempi di Peppino Impastato e Radio Aut (1977/78) alla vitalità dei movimenti pacifisti, femministi e antimafia, con epicentro tra Comiso e Catania nei primi anni Ottanta, fino alle occupazioni del dicembre 1989. A differenza della geografia del movimento del Sessantotto, dove la forza propulsiva della mobilitazione era partita dagli atenei delle città industriali del Nord, alla fine degli anni Ottanta vivacità e intelligenza critica si esprimono in maniera originale al Sud. Tant’è che le assemblee di respiro nazionale della nuova contestazione studentesca si svolgono tra Palermo, Napoli, Roma e Firenze.
A differenza del Sessantotto, dove la forza propulsiva della mobilitazione era partita dagli atenei delle città industriali del Nord, alla fine degli anni Ottanta vivacità e intelligenza critica si esprimono in maniera originale al Sud
Dalla metà di dicembre del 1989, il dibattito pubblico sulla riforma universitaria si estende comunque su scala nazionale, e un po’ ovunque negli atenei assemblee studentesche spesso si concludono con la decisione di procedere all’occupazione di una facoltà o altri spazi universitari. Comunicazioni, scambi di documenti, dichiarazioni e proposte sono accelerate grazie allo strumento comunicativo del fax, tecnologia anticipatrice di forme di azione e interazione volte a creare nodi comunicativi e reti di relazioni su scale spaziali mutevoli.
A fine gennaio, a Roma, un vasto corteo attraversa la città invocando lo slogan “La pantera siamo noi”. Si tratta di uno slogan che si richiama a circostanze del tutto contingenti: dalla fine di dicembre, nell’hinterland romano, si sta dando la caccia a una pantera avvistata in più occasioni ma che le forze dell’ordine non riescono a catturare, nonostante un ampio dispiegamento di forze. Riprendendo dunque le notizie del momento, la contestazione studentesca si attribuisce un logo – la pantera – con cui esprimere la propria “indomabilità” e la volontà di sfidare le istituzioni contro la legge Ruberti, per l’indipendenza dei saperi. Analogamente a quanto era accaduto nel Sessantotto, la critica del significato più profondo della legge Ruberti si estende fino a sviluppare una messa in discussione dell’intero contesto ideologico in cui essa si colloca.
La contestazione studentesca si attribuisce un logo – la pantera – con cui esprimere la propria “indomabilità” e la volontà di sfidare le istituzioni contro la legge Ruberti, per l’indipendenza dei saperi
La riforma universitaria è letta come un tassello, una componente, di un ben più ampio processo di smantellamento dei presupposti di Welfare e di diritti sociali su cui si era ricostruita la democrazia in Italia e in Europa nel Secondo dopoguerra. Inoltre, a partire anche da una quotidiana esperienza del divario territoriale italiano, negli atenei meridionali si teme che la collaborazione con capitali privati possa agevolare le università geograficamente più vicine a complessi industriali e di ricerca, così da aggravare, anziché mitigare, lo storico dualismo tra Nord e Sud del Paese.
La posta in gioco è dunque ampia e complessa. Il movimento della Pantera si oppone al disegno di legge per ribadire la funzione critica dei saperi e dunque la necessità della loro indipendenza da qualsiasi forma di ingerenza da parte di interessi privati, intesi anche come interessi di parte. Attraverso le occupazioni, i cortei, le assemblee e un uso strumentale dei mezzi di comunicazione di massa – i talk show e le trasmissioni in diretta offerte dall’ampio spettro di emittenti televisive pubbliche e private sono preferiti a mezzi di contro-informazione di più impegnativa gestione e minor divulgazione – il movimento acquista visibilità pubblica, riesce ad alimentare un dibattito critico per alcuni mesi, ma poi soccombe. Le contestazioni rientrano, l’autonomia universitaria passa.
In quanto movimento, attore collettivo riconosciuto sulla scena sociale, la Pantera ha avuto dunque vita breve e le ragioni non sono difficili da trovare: una prima e più superficiale risiede nella difficoltà del movimento a dotarsi di forme di azione condivise e a raggiungere, di conseguenza, una strategia unitaria. Divergenze circa i processi decisionali, messa in discussione del principio della delega, visioni eterogenee circa le priorità e le modalità di azione rappresentano certamente elementi di debolezza. Orientamenti diversi o anche confliggenti sono tuttavia caratteristici di tutti i movimenti collettivi e possono convivere anche in movimenti ad alto impatto.
Un secondo e più incisivo fattore risiede invece nella scarsa capacità di apertura del movimento. Diversamente da quanto era accaduto nel Sessantotto, la Pantera non riesce a trovare solidi interlocutori al di fuori degli atenei. Nel mondo del lavoro decentralizzazione e delocalizzazione hanno già profondamente mutato il profilo sociologico e politico di lavoratori e lavoratrici; in ambito sindacale si sta ancora metabolizzando a fatica la svolta rappresentata dalla “marcia dei quarantamila” dell’autunno 1980. In ambito politico, la rievocazione faziosa degli “anni di piombo” favorisce una facile criminalizzazione del movimento accusato di essere soggetto a “infiltrazioni terroristiche”.
Si può dire insomma che lo spirito dei tempi non sia certo favorevole per lo sviluppo di una contestazione in difesa della funzione critica dell’università rispetto alla sopravvivenza di margini di azione trasformativa degli ordini esistenti. Sulla scena internazionale il crollo del Muro di Berlino segnala la disdetta definitiva del socialismo di Stato, sulla scena nazionale “la svolta della Bolognina” – la proclamata intenzione del segretario del Pci Achille Occhetto di mutare nome e contenuto del partito a soli tre giorni dal fatidico 9 novembre 1989 – ne segnala l’impatto immediato nei termini di una presa di distanza dal comunismo novecentesco. Non a caso, si può presumere, il movimento raccolto in assemblea all’Università di Palermo il 20 dicembre 1989 respinge un comunicato di solidarietà fatto pervenire dal “Pci di Occhetto”.
In retrospettiva, si può sostenere che la Pantera sia stato un movimento certamente contro-corrente, contro una corrente estremamente forte, e storicamente lo si può considerare un successo già solo per essere emerso e aver tentato di scuotere, seppur temporaneamente, l’opinione pubblica. In una prospettiva di più lungo periodo la Pantera rappresenta quindi una testimonianza importante dell’esistenza di visioni critiche rispetto agli imperativi del tempo e ai rapporti di potere esistenti e della capacità di canalizzare quelle visioni in istanze politiche. Una sua più approfondita ricostruzione storica potrebbe inoltre contribuire a una più articolata comprensione della crisi della politica italiana culminata nel tracollo del sistema partitico della Prima Repubblica. È in questa cornice che si collocano esperienza e storia della Pantera.
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