Sono appena passate le 19 e 30 e sui finestrini del trenino che si ferma alla stazione di Tor di Quinto, sulla linea Roma-Viterbo, scorre veloce la pioggia che ha accompagnato Giovanna per tutto il pomeriggio trascorso nelle vie del centro di Roma a fare acquisti. La donna scende, poche centinaia di metri la separano dall’alloggio della Marina militare dove vive con il marito, ufficiale di stanza a La Spezia. Deve attraversare un vialetto male illuminato, delimitato da due fila di alberi, per giungere nel centro del quartiere; e poi, da lì, a casa. 

Ma Giovanna non vi arriverà mai. Poco dopo essere scesa dal treno, viene aggredita, picchiata, trascinata in una baracca all’interno del campo rom sorto vicino alla stazione - dove subisce atti di violenza atroce – e poi buttata seminuda e in coma in un fossato, lì nei paraggi. 

Quando poco dopo il suo corpo viene ritrovato, grazie alla segnalazione di una donna rom residente nell’accampamento, la polizia e i medici accorsi si rendono conto immediatamente della gravità della situazione. Un telo viene steso sul corpo a proteggerne l’intimità così violentemente profanata: è pieno di lividi ed escoriazioni e il viso appare gonfio, irriconoscibile, sporco di sangue e di fango. Si pensa immediatamente a una prostituta aggredita o a una nomade. Solo durante la notte, grazie alla segnalazione del marito alla questura, dopo aver cercato invano per tutta la serata di contattare la moglie, si saprà che la donna è Giovanna Reggiani. 

La sera stessa, i poliziotti, guidati dalla donna rom che per prima aveva dato l’allarme, arrestano all’interno del campo nomadi di Tor di Quinto Nicolae Romulus Mailat, indicato come l’autore dell’aggressione. Si tratta di un cittadino rumeno di 24 anni, giunto da pochi mesi nell’accampamento, sposato – la moglie è rimasta in Romania –, impiegato come manovale edile. Al momento dell’arresto appare impassibile, quasi inconsapevole della tragedia, nonostante il viso, illuminato dalla torcia dei poliziotti nel buio totale che avvolge il campo quella notte, appaia sporco di fango e di sangue. Da quel momento, e poi per tutti gli anni successivi, dal processo di primo grado che lo condannerà a 29 anni fino alla sentenza di appello – confermata in Cassazione – all’ergastolo, Mailat si dichiarerà colpevole di aver derubato la donna e non delle altre violenze. Ma gli elementi raccolti durante i processi, con testimonianze contraddittorie di due testimoni, non portano a individuare altri colpevoli. Mailat è l’unico a essere condannato.

Ma ritorniamo ai fatti. Dopo ore di agonia Giovanna Reggiani muore. Nel frattempo la notizia ha acquisito rilevanza nazionale e occupa le prime pagine dei quotidiani dove emerge sin da subito una narrazione fortemente incentrata sulla nazionalità della vittima e del suo presunto carnefice. Sono passati poco più di sei mesi dall’omicidio di Vanessa Russo, la ragazza romana morta dopo essere stata colpita a un occhio dalla punta di un ombrello da una donna rumena, mentre usciva da un vagone della metropolitana alla stazione Termini. 

I media traducono, come una cassa di risonanza, i messaggi e le dichiarazioni che alcuni esponenti del mondo della politica iniziano a diffondere in un clima di tensione crescente, dove il caso di cronaca viene sin da subito utilizzato per alimentare una campagna in cui la sicurezza si impone come la questione principale del Paese. All’indomani dell’omicidio viene convocato, in maniera irrituale, un Consiglio dei ministri straordinario dall’allora premier della coalizione di centrosinistra Romano Prodi che porta a licenziare un decreto legge per consentire ai prefetti di espellere per motivi di pubblica sicurezza i cittadini comunitari presenti in Italia (solo il giorno prima, il 30 ottobre, il governo aveva varato il cosiddetto “pacchetto sicurezza”). Decreto mai convertito in legge, perché in contrasto con la direttiva sulla libera circolazione dei cittadini comunitari sul territorio dell’Unione (Romania e Bulgaria avevano fatto ingresso nella Ue all’inizio del 2007).

Il sindaco di Roma, Walter Veltroni, all’epoca neo-segretario del Pd, si esprime sin da subito con toni allarmati sull’aumento dei reati riconducibili a particolari gruppi nazionali, dirigendo l’attenzione pubblica, da un caso di cronaca specifico, alle presunte responsabilità di una particolare «tipologia di immigrazione che ha per caratteristica la criminalità». Seguono decisioni, a livello istituzionale, ben precise che conducono non solo a radere al suolo l’accampamento dove risiedeva Mailat, ma alla distruzione e a controlli a tappeto dei campi rom a Roma lungo le sponde dell’Aniene, in zona Nomentana, Trionfale ed Eur, e poi anche a Firenze, Salerno, Lecce, Torino, Bologna, nell’arco di poche ore.

Parallelamente, l’allarme sicurezza viene strumentalizzato dalle forze politiche di destra per una campagna di intolleranza e di odio nei confronti dei cittadini rom e rumeni presenti in Italia. Il Circolo delle Libertà-Roma liberale organizza le prime ronde anti-rom già nelle ore successive all’aggressione e gruppi di destra manifestano davanti alla chiesa nel giorno dei funerali di Giovanna Reggiani, inneggiando alla pena di morte; il 2 novembre un gruppo formato da diverse persone armate di coltelli e spranghe aggredisce alcuni cittadini rumeni presenti nel parcheggio di un centro commerciale di Tor Bellamonaca; vicino Roma un negozio di una donna rumena viene danneggiato da una bomba carta e aggressioni e insulti si moltiplicano anche in altre città. E continueranno nei mesi successivi: basti ricordare nel maggio 2008 uno degli episodi più gravi, il cosiddetto pogrom di Ponticelli, nella periferia orientale di Napoli, che costringerà alla fuga tutti i rom del quartiere a seguito dell’aggressione con bastoni, spranghe, taniche di benzina e molotov da parte della folla inferocita nei confronti di una ragazza dell’accampamento accusata di voler rapire un bambino del quartiere.

Quello che da allora in poi sarà destinato a diventare il “caso Reggiani” – uno dei pochi nomi di donne vittime di violenza omicida destinati a entrare a far parte della memoria collettiva – ha effetti importanti anche sulla definizione del fenomeno della violenza contro le donne nei termini di un problema di ordine pubblico, di sicurezza e di controllo del territorio insidiato per lo più da presenze straniere, nonostante i dati, allora come oggi, confermino che essi avvengano per lo più all’interno delle mura domestiche. L’equazione sciagurata tra violentatore e immigrato ritorna a stimolare paure ataviche che sembravano assopite. Ma la politica della paura agitata con aggressività dalla destra, e a cui lo stesso centro-sinistra non riesce a sottrarsi, ha ripercussioni profondissime, visto che Gianni Alemanno, puntando sull’indignazione, esce vittorioso contro Rutelli dalle elezioni a sindaco di Roma che si celebrano nell’aprile del 2008, mentre Veltroni e il Pd escono sconfitti contro Berlusconi e la sua coalizione dalle elezioni politiche di quella stessa primavera, lasciando il campo alla svolta a destra dell’Italia. 

Gli effetti di questo terribile caso di cronaca saranno destinati a farsi sentire molto a lungo. I dispositivi messi in campo all’indomani dell’omicidio – ma in qualche modo già testati tempo prima – faranno definitivamente crollare i flebili argini che fino a poco tempo prima ancora rendevano impronunciabile affermare – quanto meno apertamente – il discorso razzista, l’identificazione sistematica della criminalità con il fenomeno migratorio, la presunta pericolosità di per sé di determinati collettivi nazionali. Il circolo vizioso che ha condotto gradualmente a una saldatura sempre più vistosa tra forme di razzismo istituzionale – diffuse trasversalmente tra le diverse compagini politiche – ed espressioni di razzismo popolare, soprattutto contro rom e migranti, avrà modo di dispiegarsi in tutta la sua dirompenza negli anni successivi che, a partire dalla trasformazione dell’immigrazione “clandestina” in reato penale (legge 94/2009) fino alla criminalizzazione della solidarietà nei confronti dei migranti in mare e alla drastica riduzione del diritto di asilo nel nostro Paese (“decreti Salvini” del 2018-2019 modificati lo scorso 5 ottobre) faranno dell’Italia un caso oggetto di crescente attenzione in sede di organismi di tutela dei diritti umani.