Il 26 aprile 1979, in seconda serata, la Rai mette in onda Processo per stupro, il primo programma televisivo girato nell’aula di un tribunale. I circa tre milioni di spettatori che si sintonizzano su Rete Due assistono alla ricostruzione del processo per violenza sessuale che si è svolto nel tribunale di Latina l’anno precedente. Gli imputati sono quattro uomini sui quarant’anni, accusati dalla diciottenne Fiorella: il cognome non viene reso noto, ma un’inquadratura in primo piano mostra il suo giovane volto già dalle prime sequenze del documentario. Le immagini in bianco e nero si susseguono per sessantatre minuti e sembrano interrompere il «flusso regolare» di una televisione italiana che solo da qualche anno ha – tardivamente – introdotto il colore. Il riscontro del pubblico è immediato: ai dati sugli ascolti si aggiungono presto le richieste di replica, tanto che Processo per stupro verrà mandato di nuovo in onda nel mese di ottobre, questa volta in prima serata.
La forza dirompente del documentario non sfugge alla stampa quotidiana. Secondo il «Corriere della Sera», proprio grazie alle immagini girate da Rony Daopoulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio, Loredana Rotondo nel tribunale di Latina «gli Italiani hanno capito che cos’è uno stupro». Di lì a poco arriveranno anche i riconoscimenti della critica: il lungometraggio trasmesso dalla Rai partecipa a prestigiosi festival nazionali e internazionali e viene accolto positivamente anche all’estero.
A poco più di quarant’anni dalla sua realizzazione, Processo per stupro appare come un documento straordinario per la storia del femminismo, la storia della televisione, la storia della società italiana. Ma soprattutto è un documento che ci consente di vedere come queste storie si intrecciano.
Proprio mentre il documentario girato nel tribunale di Latina viene pensato, realizzato, mandato in onda, il movimento femminista – in particolare le attiviste per il Movimento di liberazione della donna – promuove un progetto di legge di iniziativa popolare sulla violenza sessuale che sarà presentato al Parlamento italiano nel marzo del 1980. L’impegno per la proposta di legge si fonda sull’esperienza maturata a fianco delle vittime, attraverso i centri antiviolenza aperti dai collettivi femministi, ma nello stesso tempo nasce dalla sconcertante aberrazione di una legge italiana che, ancora in base al codice Rocco, definisce la violenza come un reato contro la morale e non contro la persona.
La richiesta di un intervento legislativo – che arriverà soltanto vent’anni più tardi, nel 1996 – si colloca tuttavia all’interno di una riflessione più ampia e profonda. Il discorso e l’agire politico del femminismo mettono al centro le asimmetrie di genere, i pregiudizi, le relazioni di potere che permeano la sfera pubblica e privata, e nelle quali affonda le proprie radici la violenza contro le donne. Una violenza duplice, che prima colpisce i corpi femminili e poi torna a scagliarsi contro coloro che denunciano i propri aggressori. Processo per stupro mette a nudo questa doppia violenza, da un lato perpetrata dai quattro uomini che, uno dopo l’altro, hanno abusato di Fiorella in una villa di Nettuno; dall’altro reiterata nell’aula del tribunale di Latina, in cui si discute della vita privata di Fiorella, delle sue abitudini, delle sue frequentazioni. L’avvocata che l’assiste, Tina Lagostena Bassi, è costretta a ricordare che il suo ruolo è quello dell’accusa, non della difesa. Sono parole che sintetizzano efficacemente quanto il movimento femminista ha pubblicamente denunciato e continua a denunciare: le donne violentate finiscono per essere considerate le vere colpevoli, accusate di aver attratto l’attenzione degli uomini con comportamenti sconvenienti, di essere state in qualche modo consenzienti, perfino di aver ignorato l’inclinazione dei maschi a essere predatori, non condannabile di per sé proprio perché «naturale».
Le accuse gridate dalle donne intervistate per strada, con le quali si apre Processo per stupro, sono ancora oggi scioccanti. La madre di uno degli imputati è furiosa. «Perché quello è mi' figlio, sinnò sa quanto me ne fregava a me. Lo sa lei? E non hanno fatto niente di male. Nun l'ha ammazzata 'sta ragazza. S'è andato a divertì. Certo che gli piaceva pure a lei andare a divertirsi, se no non ci andava co' mi' figlio». Né è da criticare un uomo sposato per il fatto di «essere andato a divertirsi», perché “lo fanno tutti”. Piuttosto, aggiunge un’altra delle presenti, «sono le donne di oggi che fanno schifo».
La condanna morale delle donne «moderne», che assolve i violentatori, torna nell’arringa di uno degli avvocati difensori, che punta il dito accusatore contro la richiesta di parità di diritti: «Avete cominciato con il dire “abbiamo parità di diritto, perché io alle nove di sera debbo stare a casa, mentre mio marito, il mio fidanzato, mio cugino, mio fratello, mio nonno, mio bisnonno vanno in giro?”. Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l'avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».
Le testimonianze raccolte per strada, che vedono alcune donne scagliarsi contro altre donne, dimostrano che pregiudizi, asimmetrie e stereotipi di genere sono così profondamente radicati, così pervasivi da non risultare affatto estranei al mondo femminile. Nello stesso tempo quelle testimonianze appaiono in netto contrasto con le parole di Tina Lagostena Bassi, che dà inizio alla sua arringa ricordando di essere in aula «prima di tutto come donna e poi come avvocato», poiché sono le donne tutte, e non solo Fiorella, a chiedere giustizia. Questa richiesta di giustizia va di pari passo con la consapevolezza che la violenza contro le donne può essere combattuta soltanto sradicando le asimmetrie di genere che permeano una presunta normalità.
D’altra parte i quattro imputati (poi giudicati colpevoli) non sono uomini dai comportamenti deviati, maniaci riconosciuti come tali, ma mariti, figli, fratelli di famiglie ritenute “normali”. Chiunque può riconoscerci il proprio vicino di casa, il collega, il datore di lavoro. È la conferma di quanto era già apparso evidente quattro anni prima con il «delitto del Circeo», quando alcuni ragazzi della buona borghesia romana avevano violentato e torturato due giovani donne, una delle quali era rimasta uccisa.
Processo per stupro, dunque, non dà soltanto origine al format del processo televisivo. Le immagini girate nel tribunale di Latina mostrano senza veli una società italiana in trasformazione, nella quale coesistono e confliggono un persistente maschilismo e una nuova voce politica delle donne, che ha trovato espressione attraverso il movimento femminista.
Il documentario di Daopoulo, De Martis, Miscuglio e Rotondo non è l’unica trasmissione che porta questa voce in televisione. Sempre su Rete Due nel 1979 va in onda anche il programma Si dice donna, già alla sua terza edizione. È realizzato da un gruppo di donne, interne ed esterne alla Rai, alcune delle quali femministe militanti. Ogni settimana porta sul piccolo schermo, e dunque nelle case delle persone, le grandi questioni sollevate dal femminismo: la sessualità, la maternità, il lavoro, la violenza. La sfida è discutere di questi temi sfruttando le potenzialità del mezzo televisivo, con un linguaggio immediato e diretto, capace di instaurare un dialogo con tutte le donne (e non solo con le donne). La sfida ha un esito positivo, Si dice donna è ben accolto dal pubblico e dalla critica, e proprio nel 1979 si trasforma da rotocalco del sabato pomeriggio in trasmissione collocata nella fascia di grande ascolto, il mercoledì alle 21.15.
Non è un caso che il movimento femminista si rivolga a un largo pubblico attraverso Rete Due. Siamo negli anni successivi alla riforma della Rai, e la direzione di Massimo Fichera del secondo canale vuole essere innovativa e sperimentale, aprirsi al multiforme fermento culturale e politico che attraversa il Paese, mantenendo tuttavia un equilibrio fra rottura e continuità, fra trasgressione e controllo. Processo per stupro è dunque espressione anche di quella televisione che alla fine degli anni Settanta è capace di restituire alcuni squarci della società italiana con una forza dirompente e insolita, sfruttando gli spazi di manovra di una fase di transizione che andrà presto in altre direzioni.
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