Era il 24 giugno del 1997, quando il Parlamento italiano emanava la legge delega che permetteva al governo (Prodi I) di attuare, attraverso dei decreti, il progetto di legge n. 196/1997 «Norme in materia di promozione dell’occupazione», anche noto come «Pacchetto Treu» (dal nome dell’allora ministro del Lavoro e della Previdenza sociale). Si trattava di un provvedimento in grado di introdurre importanti cambiamenti nel mercato del lavoro italiano. L’obiettivo era quello di contrastare la disoccupazione, rendendo meno rigido il mercato del lavoro, attraverso la crescita di flessibilità in alcune forme contrattuali. Tra le molte novità, si disciplinava per la prima volta direttamente l’esercizio del lavoro interinale (derogando il divieto d’interposizione tra datore di lavoro e lavoratore, introdotto dalla legge n. 1369/1960), si incentivava la diffusione dell’apprendistato, si introduceva l’utilizzo del tirocinio formativo e si regolamentava con più chiarezza anche il lavoro socialmente utile.
Il pacchetto Treu si inseriva in un quadro politico-culturale di liberalizzazione del mercato del lavoro che proveniva dall’Europa, allora fonte di direttive che davano priorità al raggiungimento di questo obiettivo comune. Occorre ricordare che negli anni Novanta erano infatti ben radicate interpretazioni neoliberiste del mercato occupazionale, nell’ottica di una continua flessibilizzazione salariale, contrattuale e degli orari di lavoro; anche gli stessi sistemi di Welfare, in crisi, videro in essa un utile strumento per contrastare la crescita di alcune disuguaglianze sociali: ad esempio, per favorire la conciliazione tra cura e lavoro da parte delle donne, o per rendere più celeri le transizioni istruzione-lavoro, e quindi l’entrata dei giovani nel mercato del lavoro. Del resto, proprio quell’anno, l’Ue definiva la Strategia europea per l’occupazione (Seo), basandola su quattro principi cardine: imprenditorialità, adattabilità, pari opportunità e occupabilità. Occupabilità appunto, più che occupazione. Il pacchetto Treu si inseriva in un quadro politico-culturale di liberalizzazione del mercato del lavoro che proveniva dall’Europa: l’Ue definiva la Seo basandola su quattro principi cardine, ovvero imprenditorialità, adattabilità, pari opportunità e occupabilità
Per molti quella legge rappresentò il punto d’inizio di un processo di precarizzazione occupazionale; senza dubbio essa costituì almeno una tappa intermedia fondamentale di un percorso di intensa trasformazione del mercato del lavoro durato oltre trent’anni, partito negli anni Ottanta - quando il modello della flessibilità lavorativa entrava a far parte delle riflessioni politiche dei governi in Italia e in Europa – e consolidato in maniera significativa già nei primi anni Novanta.
Va da sé che questi profondi cambiamenti del mercato del lavoro erano stati favoriti da fenomeni più complessi. La globalizzazione e il passaggio dalla società industriale a quella dei servizi rendevano allora necessaria la crescita della flessibilità lavorativa nell’intero mondo occidentale; anzi, nel nostro Paese questi cambiamenti si concretizzarono anche in ritardo (basti pensare che in Italia il lavoro interinale venne introdotto relativamente tardi rispetto alle altre nazioni dell’Ue). Tuttavia, negli anni successivi, al di là dei numerosi dibattiti ideologici scaturiti dall’attuazione della legge n. 196/1997, furono molte le indicazioni empiriche che evidenziarono come in Italia l’uso improprio che venne fatto di questo tipo di contratti contribuì notevolmente a favorire il fenomeno del precariato. Si trattava però di un percorso di trasformazione avviatosi già prima dell’introduzione del pacchetto Treu, ma che quest’ultimo contribuì ad accelerare significativamente in alcune forme e modalità.
Dalla fine degli anni Novanta, le forme di lavoro atipiche si moltiplicarono proprio a sfavore dei contratti di lavoro a tempo indeterminato. Molte analisi evidenziarono che l’utilizzo di nuove forme di lavoro flessibile non creò nuovo impiego, in aggiunta al lavoro «garantito», ma in alternativa ad esso. Inoltre, già a partire dai primi anni Duemila, i dati mostrarono che i nuovi contratti di lavoro flessibili si caratterizzarono prevalentemente di scarse tutele e garanzie per i lavoratori, oltre che di un basso costo del lavoro per i datori, portando sempre più ad un ribasso di diritti sociali e remuneratività nel mercato del lavoro. Molti analisti sottolinearono quindi alcune responsabilità della legge nell’aver facilitato la deregolamentazione del mercato del lavoro, favorendo il passaggio da flessibilità a precarietà
Dopo alcuni anni dalla sua nascita, molti analisti sottolinearono quindi alcune responsabilità della legge nell’aver facilitato la deregolamentazione del mercato del lavoro, favorendo il passaggio da flessibilità a precarietà. A onor del vero, bisogna comunque ricordare che questa trasformazione radicale del diritto del lavoro in Italia si realizzò più concretamente alcuni anni dopo, con l’adozione della legge n. 30/2003 (la cosiddetta «legge Biagi»). Quest’ultima contribuì a completare un processo di profonda liberalizzazione, allargando ulteriormente il ventaglio delle opportunità di lavoro atipico, e ridimensionando i vincoli e le garanzie del pacchetto Treu: la legge Biagi introdusse l’istituto della «somministrazione del lavoro», ampliando le limitazioni previste dalla 196 sul lavoro interinale, e intervenne sui rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, tramite l’utilizzo dei contratti di «lavoro a progetto».
Le successive riforme del lavoro (su tutte, la legge Fornero 2012 e il Jobs Act 2014) non riuscirono a contenere quello che è attualmente il limite più importante del mercato occupazionale italiano, ovvero la sua crescente dualizzazione (e cioè la separazione tra «garantiti» e «non garantiti»). Quest’ultima ha assunto sempre più una dimensione strutturale, tanto da essere considerata da molti studiosi anche la causa principale della bassa competitività dell’Italia. Gli ultimi rapporti Ocse hanno mostrato come questo fenomeno abbia sempre più generato disuguaglianza perché si è legato ad una profonda segmentazione sociale, penalizzando eccessivamente alcuni particolari gruppi sociali come le donne e i giovani.
Soprattutto, la precarietà lavorativa è diventata oggi una condizione sociale sempre meno temporanea e contingente, ma sempre più – per molte persone – un modo di vivere permanente e quotidiano. Tanto che alcuni studi mostrano come la precarietà in Italia sia una nuova solida frattura sociale in grado influenzare anche le visioni del mondo e gli orientamenti politici delle persone che la vivono, come avveniva un tempo con la classe sociale.
Riproduzione riservata