È il 23 aprile del 1955 e a Pozzuoli, nel napoletano, si inaugura una fabbrica di macchine calcolatrici. A inaugurarla è Adriano Olivetti, nell’ambito dei progetti di pianificazione sociale in Italia meridionale del Movimento comunità. Olivetti ha 54 anni ed è un imprenditore che si distingue nel panorama italiano (e non solo) per le sue idee innovative, che ha già realizzato a Ivrea prendendo le redini della fabbrica del padre Camillo. Il suo discorso inaugurale quel giorno a Pozzuoli è già un programma:

“Tra pochi anni la nostra ambizione di fare di questa industria italiana un tipo di industria che si avvicini nelle dimensioni e nel rendimento ai grandi organismi d’Oltreoceano, sarà compiuta e ne vedremo permanentemente le conseguenze sul piano sociale, verso un più alto livello di salari e un orario di lavoro più ridotto […] Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea, come a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell’opera che abbiamo intrapresa [...] Creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna. La fabbrica di Ivrea pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata a operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta. La nostra società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro […] Questo stabilimento riassume le attività e il fervore che animano la fabbrica di Ivrea. Abbiamo voluto ricordare nel suo rigore razionalista, nella sua organizzazione, nella ripetizione esatta dei suoi servizi culturali ed assistenziali, l’assoluta indissolubile unità che la lega ad essa e ad una tecnica che noi vogliamo al servizio dell’uomo onde questi, lungi dall’esserne schiavo, ne sia accompagnato verso mete più alte [...] Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica”.

Nel 1955 la manifattura in Italia è in pieno fordismo-taylorismo, perlomeno all’interno delle medie-grandi imprese: l’“organizzazione scientifica del lavoro”, centrata attorno a “task management”, catena di montaggio, lavori standardizzati, ripetitivi e individualizzati, è la modalità considerata migliore per gestire un’azienda. Dentro il modello fordista-taylorista la gestione delle risorse umane e la visione dei lavoratori sono ridotte all’essenziale. Si tratta di applicare un mix di, da un lato, ferrei e puntuali controlli e, dall’alto, incentivi sostanzialmente di natura materiale (legati al salario), quanto più individualizzati possibile e supportati, come consigliava Taylor, da una certa dose di paternalismo.

Nei decenni in cui il taylorismo-fordismo fu in auge, non mancarono certo i critici di tale modello e numerosi studiosi proposero semplici correttivi o addirittura innovazioni coraggiose all’organizzazione del lavoro in fabbrica. Per quanto riguarda queste ultime, si pensi ad esempio ai cosiddetti “motivazionalisti”, come, Maslow, Argyris, Herzberg o Likert, che proposero un modello di organizzazione che permettesse ai lavoratori e alle lavoratrici di crescere e realizzarsi non solo in quanto occupati in un’azienda ma anche come persone.

Molti di tali appelli, soprattutto quelli più innovativi, andarono largamente inascoltati nei primi decenni del dopoguerra, mentre nello stesso periodo ebbero più seguito quelle proposte che puntavano a trasformare il paternalismo “rozzo” del modello originario taylorista-fordista in un paternalismo un po’ più sofisticato e attento alle caratteristiche fisiche e sociali dell’ambiente di lavoro, ma senza spingersi troppo in là (si pensi alla cosiddetta Scuola delle relazioni umane di E. Mayo).

Non si tratta solo e tanto del fatto che vennero proposti interventi che oggi definiremmo di “Welfare aziendale”. La vera novità olivettiana consiste nell’idea e nella filosofia alla base di tali interventi

È dentro tale contesto che la proposta di Adriano Olivetti, anche nelle specifiche forme della “fabbrica a misura d'uomo” di Pozzuoli, assume un senso quasi rivoluzionario da un punto di vista della visione del lavoro e dell’organizzazione dello stesso. Non si tratta solo e tanto del fatto che vennero proposti interventi in favore dei lavoratori e delle lavoratrici, che oggi definiremmo di “Welfare aziendale”. La storia italiana del Novecento è stata caratterizzata, già dagli inizi del XX secolo, da singole, anche se non numerosissime, interessanti esperienze di interventi aziendali in favore dei lavoratori. La vera novità olivettiana consiste nell’idea e nella filosofia alla base di tali interventi, che il discorso inaugurale sopra riportato esprimono in maniera cristallina.

Una breve sintesi del modello di Welfare aziendale olivettiano è utile in tal senso. La filosofia dietro tale modello ruota attorno ad alcuni concetti/dimensioni chiave. Di seguito ne individuo quattro.

Una pluralità di interventi dentro una visione olistica del lavoratore/persona in termini di bisogni e aspirazioni. Il modello di Welfare aziendale olivettiano copriva una molteplicità di bisogni: dall’assistenza sanitaria e in caso di infortunio a quella sociale (venivano impiegati assistenti sociali in fabbrica), dal supporto ai compiti di cura genitoriali all’istruzione professionale, dal sostegno abitativo alla concessione di prestiti e fidejussioni bancarie, passando per servizi di mensa e di trasporto. Allo stesso tempo curava anche bisogni culturali (dalla ricca biblioteca in fabbrica alla realizzazione di manifestazioni culturali, anche durante le pause pranzo). Vi era sostanzialmente la volontà non solo di sostenere i lavoratori nei loro bisogni, ma anche quella di occuparsi in maniera olistica di loro e della loro crescita complessiva non solo come dipendenti dell’azienda ma come persone.

L’individuo dentro la comunità. La concezione degli interventi non è atomistica. Non si tratta di soddisfare singoli bisogni di un singolo lavoratore o lavoratrice. Il modello non è un modello di impronta consumeristica in cui ai dipendenti viene offerto un pacchetto di interventi da cui scegliere come negli scaffali di un supermercato o in un menù al ristorante. Invece, il modello vuole promuovere uno spirito di coesione comunitario, dentro e fuori dell’azienda. Assumono, infatti, importanza sia gli interventi rivolti al singolo sia quelli che permettono l’aggregazione fra lavoratori (si pensi alle attività culturali). Inoltre, molte attività sono offerte all’intera comunità locale all’esterno delle mura aziendali. Per di più nel caso specifico della “fabbrica a misura d'uomo” di Pozzuoli, Olivetti si pone ulteriori obiettivi sociali apprezzabili e ambiziosi: da un lato, offrire posti di lavoro al Sud, con salari sopra le medie e assistenza alle famiglie degli operai; dall’altro, realizzare un’opera architettonica, che sapesse inserirsi nel panorama naturale in cui è collocata (in questo caso il Golfo di Napoli), rispettando l’ambiente circostante ma anche volendo offrire ai lavoratori un contesto lavorativo quanto più accogliente, luminoso ed esteticamente piacevole.

Il modello vuole promuovere uno spirito di coesione comunitario, dentro e fuori dell’azienda. Assumono, infatti, importanza sia gli interventi rivolti al singolo sia quelli che permettono l’aggregazione fra lavoratori

La gratuità dell’investimento. Il modello offre servizi in un mondo in cui ancora l’intervento pubblico stenta ad affermarsi in maniera robusta. Inoltre, il modello è sostanzialmente auto-finanziato dall’azienda, senza particolari contributi esterni. Rispetto a quanto avviene attualmente, allora il Welfare aziendale non poteva giovarsi di agevolazioni fiscali di vario tipo (detrazioni, deduzioni ecc.), che lo potevano rendere più attraente per le imprese anche da un punto di vista economico.

La co-decisione come modalità di progettazione e di realizzazione degli interventi. Adriano Olivetti non “inventa” il Welfare aziendale nella sua azienda. Già prima del suo arrivo, era presente una serie di misure di sostegno per i dipendenti. Quello che Adriano Olivetti fa è non solo allargare la platea degli interventi, aprendoli di più all’intero tessuto locale, ma anche modificare la loro modalità di impostazione e gestione, prevedendo un “Consiglio di gestione”. Fanno parte di quest’ultimo sia rappresentanti dell’azienda sia dei dipendenti. Si tratta di un organo interno con poteri in materia di interventi nel campo del Welfare aziendale. Quest’ultimo in Olivetti non ha, quindi, natura unilaterale, deciso e imposto dall’azienda, ma è frutto di riflessioni consensuali fra lavoratori e impresa.

Alla luce di quanto fin qui scritto, ci si può domandare che cosa possa insegnarci oggi il modello olivettiano di Welfare aziendale. A questa domanda, si può rispondere che esso rimane di estrema attualità, tanto più dopo l’ultimo quindicennio in cui si è iniziato crescentemente a riscoprire in Italia il Welfare aziendale e molte imprese si stanno dotando di tali interventi.

L’attualità dipende dal fatto che possiamo utilizzare l’approccio olivettiano per cercare di capire il senso e distinguere fra le molte esperienze di Welfare aziendale attualmente offerte. Quando, infatti, si discute e si analizza tale fenomeno oggi, il dibattito ruota immediatamente attorno a due coppie di concetti, in buona parte legati fra loro. Il Welfare aziendale va visto come una modalità di organizzazione del lavoro in azienda, che intende coniugare efficienza e produttività con lo sviluppo e l’autorealizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici anche in quanto persone, o va inteso come una modalità di controllo più sofisticato nei loro confronti? Si tratta di paternalismo non troppo rozzo o di una visione illuminata del ruolo e delle responsabilità sociali imprenditoriali?

Le quattro dimensioni sopra riportate del modello olivettiano possono aiutare a interpretare il senso e la portata di molte delle esperienze attuali, formulando tali quattro dimensioni sotto forma di domande. L’insieme degli interventi di Welfare aziendale in una data organizzazione porta o meno con sé una visione olistica del lavoratore/persona in termini di bisogni e aspirazioni? Tali interventi vedono il lavoratore solo come individuo e individualizzano le risposte o lo mettono dentro una comunità, che va nel suo insieme sostenuta? Quanto l’azienda finanzia con proprie risorse autonome il proprio Welfare aziendale o quanto invece fa affidamento su agevolazioni fiscali statali o propone sostanzialmente ai lavoratori uno scambio fra “Welfare benefit” in cambio di moderazione salariale? Infine, gli interventi sono decisi dall’alto della direzione aziendale o sono il frutto di un paziente lavoro di riflessione e di discussione fra impresa e lavoratori?

Tanto più le risposte a queste quattro domande si avvicinano a quelle fornite dal modello Olivetti, tanto più possiamo pensare che la concezione dietro il Welfare aziendale sia ispirata da una visione illuminata del ruolo e delle responsabilità sociali imprenditoriali e abbia come obiettivo primario coniugare efficienza e produttività con lo sviluppo e l’autorealizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici in quanto persone e non solo come dipendenti.