Manca tutto il resto, ma c’è un sacco di buona letteratura in giro, persino nelle classifiche dei libri venduti. Da poco tradotti, per fare solo due titoli, ci sono Purity, dell’inevitabile Jonathan Franzen, o la vecchia biografia di Philip Dick del solito Emmanuel Carrère, uno che saprebbe rendere leggibile anche la lista della lavandaia. Allora, perché immergersi nell’incubo apocalittico di Boualem Sansal, 2084. La fine del mondo? Perché, in particolare se si è consapevoli del fatto che, come diceva Anthony Burgess, solo scrittori mediocri puntano sull’apocalisse?
La fascetta editoriale del libro dice che si tratta di una sorta di sequel di Sottomissione, di Michel Houellebeq, libro che mi ha colpito molto, e di cui ho consigliato la lettura, in un articolo apparso lo scorso anno sull’edizione cartacea di questa rivista. Houellebeq racconta l’introduzione di un regime islamico soft nella douce France; Sansal immagina un mondo successivo, post-islamico, post-atomico, per certi versi anche post-umano, dominato da una teocrazia rispetto alla quale impallidiscono, come souvenir, non solo i totalitarismi novecenteschi, ma persino gli esperimenti di macelleria perpetrati nel Medioriente e in Africa dal sedicente Califfato.
Fra i due libri, peraltro, ci sono differenze abissali: di genere, prima ancora che di stile, di humour e, a dirla tutta, di pura e semplice leggibilità. Rispetto alla fantapolitica di Houellebeq, nella fosca distopia di Sansal manca del tutto l’elemento sessuale: ma questo è un punto a suo favore. Il problema è che manca anche una trama nitida, una qualche progressione drammatica, dei personaggi che si imprimano nella memoria. Tutto, come vediamo subito, resta sfocato; intorno alla vicenda si indovinano efferatezze quotidiane, ma ormai ritualizzate e banalizzate.
La vicenda, in due parole. Nel mondo retto da Abi, delegato in terra dell'unico dio Yolah, il protagonista Ati torna nella capitale dopo essere stato confinato in un sanatorio per una malattia, e progressivamente scopre l'assurdità della situazione, tenta la rivolta, scopre che anche questa viene strumentalizzata in una lotta fra fazioni che potrebbe portare all'implosione del regime, infine parte alla ricerca dei confini dell'impero, ufficialmente negati. Di fronte all’esilissima vicenda, si ripropone la domanda iniziale: perché leggere – ma anche solo perché commentare – un libro del genere?
A occhio, per due ragioni. La prima è che de nobis fabula narratur: perché già molti di noi, e non solo l'autore - che nell’Algeria di oggi sperimenta una sorta di esilio interno - o i nuovi dannati della terra nelle varie banlieue dell’Occidente, viviamo la situazione di deprivazione culturale descritta nel libro. Anche i nostri figli, ad esempio, sembrano condannati a vivere nel mondo piatto dei social media, privi delle più immediate coordinate storiche o geografiche, rese ormai inutili da Google Maps. La seconda è l’originale declinazione del tema dei confini, qui resi ancora più invalicabili dalla negazione che ne fa l’ideologia ufficiale, quasi a precludere la stessa possibilità di un qualsiasi Altrove.
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