A metà anni Settanta l’Italia viveva una fase complicata. Affascinante, per molti aspetti, ma difficile. Veniva fuori da uno dei periodi di crescita economica più intensi mai visti nella storia (non solo la sua). Ma con la crisi energetica del 1973 si era aperta un’epoca di incertezza e di ripensamento sulla strategia seguita fino ad allora. Dal basso muoveva una forte spinta redistributiva, di diritti sociali e civili, di democrazia, incarnata da una generazione di ragazze e ragazzi numerosa (erano i baby boomers, nati dopo la guerra) e anche, perché no, combattiva: molti, di genitori contadini (al Sud, ancora nel 1951, quasi il 60% delle persone lavorava nei campi), avevano avuto accesso per la prima volta all’istruzione e all’università; conoscevano sulla loro pelle l’ingiustizia di privilegi millenari e nutrivano, nel contempo, la speranza che tutto stesse per finire; si sentivano parte di un enorme movimento mondiale che stava cambiando tutto, dai rapporti sociali alla vita familiare, fino al sesso, nel volgere di una manciata di anni.
Ma quelle spinte, così forti nella società e soprattutto fra i giovani, e vincenti sia in termini di diritti sociali (lo Statuto dei lavoratori) sia civili (il divorzio e poi la riforma del diritto di famiglia nel 1975, in cui le donne finalmente sono poste alla pari degli uomini), così come la crescita elettorale delle forze di sinistra e soprattutto del Pci, non riuscivano a trovare sbocco negli assetti di governo. Qui il potere democristiano non sembrava scalzabile, per gli equilibri della Guerra fredda. Un’intera generazione si trovava così presa in mezzo fra la strategia della tensione, messa in campo da una parte dei servizi segreti italiani insieme a frange di estrema destra con vere e proprie stragi terroristiche, che mietevano decine di vittime, e la lotta armata dei gruppi di estrema sinistra, che pensavano di rovesciare la Repubblica democratica con la violenza «rivoluzionaria». Il pensiero radicale era diventato di moda, quasi una specie di conformismo; bel paradosso.
L’Italia era anche un Paese straordinariamente fertile sul piano culturale. Specie per quel che riguarda la popular culture. Il cinema, la più importante arte del Novecento, aveva trovato da noi, durante il miracolo economico, un’esplosione di creatività senza pari nel mondo (ma il 2 novembre 1975 veniva ucciso Pasolini, uno dei registi più conosciuti e innovativi, e forse l’intellettuale della sinistra italiana più influente a livello internazionale, assieme a Gramsci: a proposito del clima di quel tempo). Fra gli anni Sessanta e Settanta, adesso, è però soprattutto il mondo della musica leggera a cambiare e sorprendere.
In Occidente, dopo la Seconda guerra mondiale, era nata la canzone d’autore o, per meglio intenderci, l’idea della «canzone come opera d’arte». Una forma d’arte nuova, che unisce la poesia e la musica (e gli spettacoli dal vivo) fondendoli in qualcosa di originale, e i cui confini creativi vanno dagli chansonniers francesi degli anni Cinquanta al rock progressivo degli anni Settanta, passando per Bob Dylan e i Beatles negli anni Sessanta, per la nascita del rock (con Like a Rolling Stone, di Dylan, nel 1965). Diventerà anch’essa una parte fondamentale della popular culture, specie di sinistra, e specie in quegli anni. Quanto, se non più, del cinema. E soprattutto fra i giovani.
In questo campo l’Italia arriva un po’ in ritardo, rispetto alla Francia, all’Inghilterra e al Nord America (e pure all’Argentina). Poi però si riprende. A partire dai grandi concept album di Fabrizio De André (il salto di livello, anche rispetto alla «scuola genovese» o allo stile importato da Georges Brassens, è Tutti morimmo a stento, del 1968), assistiamo a un’esplosione assolutamente straordinaria della canzone d’autore in Italia. Negli anni Settanta (e poi in parte negli anni Ottanta) questa forma d’arte vivrà da noi una autentica «età dell’oro»; un po’ come era accaduto con il cinema durante il miracolo economico, anche se, in questo caso, con un impatto internazionale enormemente minore. Di quella stagione un giovane poco più che ventenne, Francesco De Gregori, è allora per molti versi la figura più rappresentativa.
«Francesco ha davvero fatto scuola», scrive di lui all’epoca Rino Gaetano: «Una volta Guccini e De André erano gli unici davvero un po’ impegnati, che non facevano canzoni d’amore come Paoli o Bindi. Al discorso «pseudointellettuale» di Fabrizio si è aggiunto l’ermetismo di Francesco, che ha aperto una strada ancora più grossa. Francesco ha cambiato anche De André, che era stato suo padre, e così oggi si sono avvicinati un po’ tutti a quel modo espressivo» (dal libro di Enrico Deregibus, Francesco De Gregori, mi puoi leggere fino a tardi, Firenze, Giunti, 20152, p. 117).
Nel 1975, con l’album Rimmel – uno dei più grandi successi commerciali della nostra musica – De Gregori ha in effetti cambiato per sempre la canzone pop in Italia, ne ha trasformato il linguaggio, soprattutto, rendendolo «moderno», più o meno come è oggi: un terreno in cui si mescolano politico e privato, citazioni colte e mondo popolare, sia nei testi sia nelle musiche, su uno spartito e con codici a volte arditi e comunque molto personali, come in genere si richiede all’arte contemporanea – che esprime l’individualità dell’artista, in coerenza filosofica con l’umanesimo liberale. Questo è De Gregori all’epoca. Definito «un agguerritissimo hit-maker, della statura commerciale di Celentano e Battisti» e, a un tempo, «l’unico giovane cantautore italiano capace di far accettare al grosso pubblico canzoni intelligenti» (ibidem, p. 125). Peraltro, le sue canzoni più belle e originali forse doveva ancora scriverle (arriveranno all’inizio degli anni Ottanta).
De Gregori è anche dichiaratamente di sinistra. Simpatizza per il Pci e frequenta Lotta continua, si rende in più occasioni disponibile anche gratis per loro, come per altri gruppi di estrema sinistra fra cui gli Anarchici. Ma in quel periodo nei concerti c’è tensione, anche il servizio d’ordine autogestito a volte ne è complice. Il 2 aprile 1976, a Milano, al termine di un’esibizione già complicata, De Gregori subisce un’aggressione (chiamarla contestazione è improprio), che fa scalpore sui giornali e lascia un segno anche sugli altri cantautori – ne verranno fuori perfino delle canzoni, Vaudeville di Roberto Vecchioni, che era presente, ed Era una festa di Edoardo Bennato. La vittima così la descrive: «Vennero a prendermi nei camerini in dieci, uno aveva una pistola, e mi fecero tornare sul palco, dove venni sottoposto a una sorta di processo popolare». In sostanza viene accusato di essere un borghese e di arricchirsi con le canzoni. Fra gli aggressori, c’è chi lo ammonisce: «Vai a fare l’operaio e suona la sera a casa tua». Altri discorsi sono agghiaccianti: «La rivoluzione non si fa con la musica. Prima si fa la rivoluzione, poi si potrà pensare alle arti o alla musica. Lo diceva anche Majakovskij, che era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu!» (ibidem, pp. 120-121). Ci sarebbe da ridere, se non fosse una situazione drammatica.
De Gregori, che di sinistra rimarrà fino a oggi, ricorderà a distanza di molti anni: «La conseguenza immediata fu che per un po’ smisi di suonare (…). Nelle cronache di quel periodo, il mio restò un episodio minimo. Del resto in Italia stava accadendo di molto peggio. La gente veniva massacrata. Sprangata. Menomata. Gambizzata. Uccisa. (…) La cosa che continuò a darmi un senso di disagio fu che l’attacco era avvenuto da sinistra; se fosse stato portato da destra sarebbe stato molto più comprensibile» (F. De Gregori con A. Gnoli, Passo d’uomo, Bari-Roma, Laterza, 2016, pp. 97-99). Lì per lì sembra addirittura che voglia ritirarsi a vita privata – aspetterà due anni prima di pubblicare un nuovo album, per fortuna bellissimo (è quello di Generale).
Pochi giorni dopo l’aggressione, l’artista scrive un pezzo per la rivista "Muzak", in cui nota con lucidità come quell’atto sia stato innanzitutto un errore politico: «Ricaccia a destra autori e gruppi potenzialmente disponibili a iniziative di sinistra, incentiva i concerti a tremila lire [fra due e tre volte il prezzo dei suoi, NdA], gli schieramenti polizieschi e i servizi d’ordine privati presi a nolo dai grossi impresari. Da questo punto di vista, quindi, questi episodi fanno oggettivamente il gioco della cultura del potere e della musica tranquillizzante, e si prestano oltretutto a essere ripresi e strumentalizzati in chiave terroristica, reazionaria e scandalistica» (Deregibus, cit., p. 123).
De Gregori ha colto il punto. Volendo generalizzare (ma siamo qui proprio per questo) quell’episodio simboleggia in modo esemplare, nell’Italia di allora, una divaricazione storica fra le due sinistre, «radicale» e «riformista». Quella divaricazione ha avuto conseguenze negative per l’Italia, in una fase storica decisiva in cui, terminato il miracolo economico, bisognava imboccare la strada di un nuovo modello di sviluppo e una sinistra riformista forte e radicata sarebbe stata utile al Paese: per creare un Welfare State moderno e non frammentario ed elettoralistico, per investire nell’istruzione, nella ricerca e nella riforma dell’amministrazione, per affrontare con più consapevolezza le sfide della modernità, un po’ come era accaduto o stava accadendo negli altri Paesi dell’Europa occidentale.
Invece si è rimasti bloccati nella contrapposizione ideologica tra rivoluzionari e social-democratici, con il grande Partito comunista preso nel mezzo e incapace di scegliere. In quegli anni, nella frattura così ostentata fra radicali e riformisti, si perse un’occasione per modernizzare il Paese, per farlo avanzare in direzione dell’uguaglianza e della libertà, i cui esiti per certi aspetti li vediamo ancora oggi. La storia che abbiamo raccontato è una parabola, in fondo, il cui significato va oltre il mondo della canzone.
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