«Per chi ha bambini c’è la città dei divertimenti. È a Castelnuovo del Garda. Sulle colline si snodano villaggi western e da fumetto con tutti i personaggi delle fiabe. Si può andare a cavallo, fare un safari sulle canoe, visitare la miniera dei sette nani, avere i brividi su una avveniristica giostra o andare su un trenino spiritoso, assistere alle evoluzioni dei delfini e alle prodezze di un prestigiatore. Gardaland è curata da Febo Conti». Sono queste le parole con cui finì per la prima volta su un giornale nazionale. Ma era una mini-vetrina: in fondo a pagina 5 del «Corriere d’Informazione», edizione pomeridiana del «Corriere della Sera», in un riquadro diviso in due sezioni, Per chi resta in città e Per chi va fuori Milano. Quelle poche righe furono replicate identiche i due venerdì successivi nella medesima posizione, con unica aggiunta «l’amico dei bambini» proprio in coda, per meglio qualificare Conti (e ribadire il target).
A restituire la misura degli inizi in sordina di Gardaland, però, è la data di quella prima pubblicazione: venerdì 23 giugno 1978. Cioè quasi tre anni dopo l’inaugurazione del parco, che avvenne il 19 luglio 1975, ovviamente un sabato. E furono tre anni di sudore, lacrime e sangue per l’imprenditore veronese Livio Furini e gli altri (pochi, un pugno di amici) fondatori di Gardaland. Tra loro Giorgio Tauber, classe 1941, veronese pure lui: dopo averlo diretto per 20 anni, passò la mano nel 1995 per creare una società di ideazione, progettazione, realizzazione e gestione di parchi a tema. Quelle stagioni Tauber le ricorda bene: «I primi cinque anni furono i più difficoltosi, era tutto gestito in modo molto artigianale. Poi, dal 1980, cominciammo ad avere le idee più chiare su quella che stava diventando la nostra vera dimensione». Che oggi è colossale: estensione di 445 mila m², primissimi posti nella classifica mondiale di parchi divertimenti per fatturato, quasi 3 milioni di visitatori nel 2019. A elencare tutte le attrazioni non si finirebbe più: e fa quasi tenerezza il povero elenco che avete letto all’inizio.
L’elenco di un anno dopo, tratto da un articolo del 12 ottobre 1979, era già più ricco, con biglietto d’ingresso fissato a 1.500 lire (mentre oggi gli adulti pagano 45 euro, con riduzioni a 39 per bambini fino a 10 anni e over 60). Articolo che comparve non più sul «Corriere d’Informazione», bensì sul «Corriere della Sera», destinato finalmente a un pubblico nazionale. E si era alle soglie dei dorati anni Ottanta, quando l’Italia girò pagina per tuffarsi in quello che è stato definito l’ultimo decennio felice delle nostre vite. Pure Gardaland svoltò per sempre, diventando meta imperdibile almeno una volta nella vita (ma anche tante, a seconda del puntiglio dei bambini e dell’animo spensierato dei genitori). E non più come tappa di passaggio per qualche ora di una gita in zona Garda, come agli inizi, bensì per l’intera giornata.
Pure Gardaland svoltò per sempre, diventando meta imperdibile almeno una volta nella vita. E non più come tappa di passaggio per qualche ora di una gita in zona Garda, come agli inizi, bensì per l’intera giornata
Nati sul modello di Disneyland, i primi parchi divertimento italiani erano infatti poca cosa se confrontati agli attuali: poco più dei tradizionali luna park itineranti. Buon esempio del loro sviluppo è proprio Gardaland. Che non fu neppure il primo a nascere, preceduto da Edenlandia a Napoli (1964), Fiabilandia a Rimini (1965) e Cavallino Matto a Castagneto Carducci (1967). E a lungo restò più popolare l’Italia in Miniatura, creato sempre a Rimini nel 1970. Tutte strutture pensate per i bambini. Ma a un certo punto, e tutto partì ancora negli Stati Uniti, si intuì che il pubblico potenziale poteva essere non solo di famiglie, bensì anche di adolescenti e adulti a caccia di emozioni forti. Da lì in poi fu il diluvio, compreso l’ampio capitolo dei parchi acquatici: Canevaworld a Lazise, sempre sul Garda, Aquasplash a Lignano, Aquafan a Riccione… E in cima a tutto la meraviglia delle meraviglie: appunto Mirabilandia, nato a Ravenna nel 1992, in cui Francesco Piccolo ha tra l’altro ambientato una stralunata tappa del suo L’Italia spensierata.
Parallelamente all’accumularsi di attrazioni le più svariate (coaster vertiginosi, percorsi acquatici, tenebrosi tunnel, cinema «dinamico», avventure interattive a base di mummie o creature del bosco), dagli anni Ottanta in poi Gardaland ha incarnato la voglia di divertirsi del Paese. Almeno un giorno, almeno qualche ora. Come il Tony Manero di Saturday Night Fever, re per una notte lontano dallo squallido negozio di vernici di Brooklyn. E non è un esempio casuale. Ha scritto Claudio Cecchetto, uomo simbolo del decennio della Milano da bere: «Evasione. È lei la protagonista degli anni Ottanta. Gli italiani avevano voglia, e tanta, di divertirsi, di non pensare, di evadere, appunto, e senza vergognarsene, stanchi del decennio precedente fatto d’instabilità, violenza e paura e forse anche delusi da quello che aveva prodotto il cosiddetto “impegno”».
Luoghi di aggregazione (le discoteche), cerimonieri (i disc-jockey) e centro pulsante (Milano) sono quelli della declinazione cecchettiana, ma nell’elenco ci sta eccome anche Gardaland, in un’estensione familiar-popolare di quella che ormai è vulgata: l’Italia stanca delle piazze e sazia di politica che si tuffa voluttuosa nello spasso. Con esiti peraltro spesso dimenticati: gli Ottanta sono stati infatti anche gli anni feroci delle prime Leghe politiche, quelli degli altari «paninari» votati ai marchi, quelli volgari di «Radio parolaccia» e delle tele-risse, quelli rampanti delle ricchezze facili in Borsa e dell’evasione fiscale di intere categorie, oltre a quelli tremendi del razzismo all’apparizione dei primi «vu’ cumprà», con annessi morti ammazzati (e naturalmente dimenticati).
Intanto però a Castelnuovo del Garda gli italiani sciamavano a migliaia, proprio in quei sabati pomeriggio che per anni, un po’ più giovani e senza prole al seguito, avevano trascorso magari a manifestare nelle piazze delle loro città. Era la conseguenza di quanto Demoskopea aveva colto al tramonto del decennio precedente. La ricerca, pubblicata da «Panorama» nel primo numero del 1980, diceva così: «Diminuisce la fiducia in forme collettive di liberazione e di realizzazione (la rivoluzione, la classe) che aveva caratterizzato gli anni che abbiamo appena lasciato alle spalle: si coltiva il proprio particolare e la tendenza è quella di non delegare ad altri o non prorogare nel tempo la soddisfazione di questi impulsi». Il tutto connesso alla «ricerca di forme private e individuali di benessere e di felicità». E dopo tanto divertimento, compresi i weekend su trenini e montagne russe, l’esito finale lo certificò il Censis nel proprio rapporto sul 1989: «La gente comune sente forte la tentazione di chiudersi in se stessa e di godersi il già raggiunto, applicando il principio che dopo la corsa viene il riposo e il gusto di godere dei frutti prodotti dalla voglia di crescita che ha caratterizzato gli ultimi lustri».
"La gente comune sente la tentazione di chiudersi in se stessa e di godersi il già raggiunto, applicando il principio che dopo la corsa viene il riposo e il gusto di godere dei frutti prodotti dalla voglia di crescita che ha caratterizzato gli ultimi lustri"
Quel rapporto del Censis diceva molto di più. E benché si trattasse di una fotografia di ormai 32 anni fa, sembrava cogliere un che di perenne del carattere nazionale: «Il cittadino medio si indigna quando s’imbatte in un traffico automobilistico caotico, soffre di un’atmosfera inquinata, si trova a dover utilizzare mezzi di trasporto pubblici inadeguati, subisce lo stato di cattiva manutenzione delle strade. Ma forse, proprio per l’irritazione che ne nasce, non riesce ad avvertire che lui stesso è portatore di una quota di responsabilità rispetto a tale situazione». Già, perché «un tale stato di cose è il risultato anche di uno stillicidio di microtrasgressioni di cui ognuno si rende colpevole, non solo e non tanto rispetto alle leggi, quanto alle norme elementari della convivenza».
Se caratteristica sostanziale delle società post-moderne è il processo di individualizzazione (e il conseguente dilagare dell’egoismo, privatissimo o sociale di categorie le più varie), poche cose come i parchi divertimento ne costituiscono cornice ideale: l’interattività, la tecnologia che si fa magia, storia e finzione irreparabilmente fuse in scenari fittizi consentono infatti di spogliarsi allegramente della propria identità quotidiana. In una parentesi, ha scritto il compianto Giampaolo Fabris, «che si coniuga con lo svago, il gioco, l’avventura, il brivido a buon mercato, la meraviglia». Per poi svegliarsi di colpo, risalire in auto, tornare a casa. E inveire contro gli altri automobilisti.
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