Il 14 ottobre 1980, a Torino, migliaia di cittadini – soprattutto impiegati e quadri della Fiat ma anche operai, artigiani, commercianti, piccoli industriali – decidono di manifestare pubblicamente il loro sostegno alla più importante azienda del Paese e, al contempo, la loro contrarietà verso coloro – la maggioranza delle “tute blu”, delegati, sindacalisti – che, per alcuni anni, sono riusciti a limitare in modo rilevante la libertà di azione dell'impresa.
Paul Ginsborg, nella sua Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi (Einaudi, 1989), ha scritto che la marcia dei quarantamila rappresentò «la fine di un'epoca» (p. 540). In effetti, fu un evento periodizzante. Ma quale epoca si chiuse? A questa domanda si può rispondere in modo diverso a seconda che si adotti uno sguardo storico di breve, medio o lungo periodo. Eppure, il risultato non cambia: infatti, pochi altri eventi nella storia dell'Italia contemporanea hanno avuto la forza di porre termine – nello stesso momento – a una breve congiuntura (i “35 giorni”), a una stagione intermedia (il “lungo Autunno caldo”) e a un'epoca lunga (l'età del fordismo).
In un'ottica di breve periodo, la marcia interruppe bruscamente una dura vertenza sindacale iniziata 35 giorni prima, il 10 settembre. Quel giorno, dopo un braccio di ferro tra Fiat e sindacati avviato già da tempo per la richiesta da parte aziendale di procedere a una drastica riduzione della manodopera al fine di contenere i costi, l'impresa conferma in modo irremovibile l'intenzione di licenziare 14.469 dipendenti. La Flm – il sindacato dei metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil – prende atto della rottura delle trattative; la produzione è sospesa e i picchetti dei lavoratori impediscono l'accesso negli stabilimenti del gruppo, a partire da Mirafiori, epicentro della lotta. Mentre a Torino e in tutta Italia si moltiplicano iniziative e scioperi di solidarietà, a Roma ha inizio una mediazione complessa, promossa dal ministro del Lavoro Franco Foschi, certamente difficile ma aperta a diverse soluzioni. Nel frattempo, il segretario del Pci Enrico Berlinguer, durante una visita ai cancelli della Fiat, promette ai lavoratori il sostegno del partito nel caso optino per la scelta estrema di occupare le fabbriche (esattamente sessant'anni dopo il celebre precedente del 1920). Di lì a poco, però, la caduta del governo Cossiga conduce le trattative istituzionali su un binario morto, proprio mentre nel sindacato cresce la distanza tra fautori del dialogo e sostenitori di un conflitto radicale.
È a quel punto che la Fiat cambia strategia, sospendendo i licenziamenti ma inviando il 30 settembre oltre 23 mila lettere ad altrettanti dipendenti con cui viene annunciata loro a partire dal 6 ottobre la cassa integrazione a zero ore (cioè la messa fuori produzione). Sul tavolo non vi è più un numero – i 14.469 licenziamenti – ma un interminabile elenco di nomi in cui figurano tutti i protagonisti della lunga stagione di lotte, nonché molti di coloro che portavano sui corpi i segni indelebili della fatica operaia. Il sindacato parla di una vera e propria “lista di proscrizione”, che separava i “sommersi” dai “salvati”. In quel momento la vertenza si fa ancora più drammatica, ma per alcuni giorni il clima di solidarietà sembra reggere. Fino, appunto, al 14 ottobre, quando accade l'imprevisto: una manifestazione in apparenza spontanea, ma che di fatto rappresentava una prova di forza della Fiat, intenzionata a ripristinare i tradizionali rapporti di potere. L'esito, a quel punto, diventa scontato e le Confederazioni si affrettano a firmare un accordo che accetta le richieste dell'azienda.
Fu una manifestazione in apparenza spontanea, ma che di fatto rappresenta una prova di forza della Fiat, intenzionata a ripristinare i tradizionali rapporti di potere
I 35 giorni finiscono con la netta sconfitta del sindacato. Per i cassintegrati la débâcle è totale: la gran parte viene definitivamente espulsa dal ciclo produttivo. Ma il dato più toccante è il numero di suicidi tra gli operai, ben 149 (fino al 1984).
Con la marcia del 1980 non finì soltanto una dura disputa sindacale, ma – in un'ottica di medio periodo – terminarono anche gli “anni '68”, cioè quel lungo ciclo di conflitti iniziato con le lotte studentesche oltre dieci anni prima. Com'è noto, il movimento si distinse, specie in Occidente, per il legame tra giovani studenti e operai, uniti nella lotta contro ogni forma di autoritarismo, nelle scuole e negli atenei, nelle fabbriche e nella società. Ciò avvenne soprattutto in Italia, dove – più che di “lungo '68” – sarebbe più corretto parlare di un “lungo '69”, iniziato l'anno prima ma giunto al culmine con l'Autunno caldo e proseguito poi, seppure in modo via via meno intenso, per tutti gli anni Settanta. È l'epoca della “conflittualità permanente”, quando i lavoratori realizzarono conquiste storiche sul piano economico (come gli aumenti salariali uguali per tutti) e giuridico (dalla tutela della salute all'assemblea, all'inquadramento unico).
Il merito principale fu del “sindacato dei consigli”, quella “sinistra sindacale”, radicata nel mondo industriale, che promosse – per citare Gino Giugni – il processo di "sindacalizzazione della contestazione". Gli assi della nuova linea sindacale furono tre: una maggiore democrazia sindacale, facendo dei delegati e dei consigli di fabbrica – eletti su scheda bianca da tutti i lavoratori – le strutture di base del sindacato, dotati del potere di contrazione nei luoghi di lavoro; una maggiore autonomia sindacale, finalizzata a fare del sindacato un soggetto politico, con un proprio programma generale, in grado di dialogare alla pari con partiti e istituzioni; infine una maggiore unità sindacale, con l'obiettivo di dare vita a una nuova Confederazione che superasse le vecchie divisioni tra Cgil, Cisl e Uil. Dalla metà del decennio, tuttavia, complici la grave crisi economica e l'offensiva del terrorismo, il sindacato dei consigli aveva preso a indebolirsi, fino all'Autunno “freddo” del 1980, punto d'avvio di un irreversibile declino.
Se si adotta una lettura di lungo periodo, la marcia del 1980 assume un significato ancora più dirompente, di chiusura – come detto – di un'intera epoca, quella del fordismo. Avviata nel periodo tra le due guerre mondiali, quando il taylorismo aveva fatto la sua comparsa in Italia, la parabola fordista era giunta all'apice con il boom economico, tra anni Cinquanta e Sessanta, grazie alla diffusione delle produzioni e dei consumi di massa. In realtà, solo con le lotte operaie del 1968-73 si era ottenuto quel consistente aumento delle paghe in grado di assicurare anche agli operai un tenore di vita più elevato. Lo shock petrolifero del 1973, tuttavia, aveva cambiato le carte in tavola; così, disoccupazione e inflazione dovevano ridurre drasticamente il potere contrattuale dei lavoratori.
Dagli anni Ottanta si afferma il mito della flessibilità: un mito destinato tuttavia a tradursi fino ai giorni nostri in una condizione strutturale di precarietà, sempre più dilagante
Dal punto di vista delle imprese, la necessità di competere sui mercati sempre più globali e in continua fibrillazione rende ormai insostenibile il clima di accesa conflittualità; occorreva, perciò, tornare ad avere mano libera nelle aziende per imporre un'organizzazione flessibile del lavoro, avviando al più presto imponenti piani di ristrutturazione. Il modello di riferimento non poteva più essere il fordismo, con le sue rigidità; inoltre, dal Giappone iniziavano ad arrivare i primi dati sulle clamorose performance produttive del toyotismo, in grado di adattarsi in modo sorprendente alle fluttuazioni dei mercati, anche grazie alla robotizzazione. Anche per questo la Fiat aveva deciso di voltare pagina. Non a caso, dopo la marcia ha inizio un ampio programma di ristrutturazioni in tutti gli stabilimenti del gruppo, anche se la svolta vera e propria arriva solo nei primi anni Novanta con la costruzione della fabbrica Sata di Melfi, primo esempio di produzione toyotista in Italia, progettata secondo i criteri della produzione snella e del just in time.
Nella storia delle relazioni industriali in Italia, la marcia dei quarantamila, dunque, è davvero una cesura. Le imprese ricevettero una spinta formidabile per innovare in modo profondo processi e prodotti, con cui misurarsi con le sfide della globalizzazione. Il mondo dei lavoratori, al contrario, subì una pesante battuta d'arresto. Sull'onda dell'offensiva neoliberista, che mirava alla piena deregolamentazione dei mercati, dagli anni Ottanta si affermò il mito della flessibilità: un mito destinato tuttavia a tradursi fino ai giorni nostri, specie per i più giovani e per i lavoratori meno qualificati, in una condizione strutturale di precarietà, sempre più dilagante.
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