Il 12 settembre 1946, la Fiera campionaria di Milano riapre i battenti, dopo tre anni di chiusura forzata a causa del Secondo conflitto mondiale e dei bombardamenti, che hanno martoriato la città e distrutto una parte ingente del quartiere espositivo. Inaugurata dal capo provvisorio dello Stato, Enrico de Nicola, e dal presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, quella del 1946 è la fiera della rinascita, il simbolo della ripartenza dell’intero Paese, in una città che si candida presto a divenire la capitale del Miracolo economico (1958-1963).

Ad accentuare il carattere simbolico di questa data, tanto per l’immaginario dei contemporanei quanto per le ricostruzioni storiche successive, è la comparsa, tra i prodotti esposti, di un oggetto destinato a trasformare profondamente le abitudini quotidiane delle famiglie e, soprattutto, quelle delle donne italiane: la prima lavabiancheria a uso domestico interamente progettata e prodotta in Italia.

A presentarla al grande pubblico, con il nome di Candy 50, è un’azienda di Monza, le Officine meccaniche Eden Fumagalli, impresa specializzata sin dagli anni Venti nel campo della meccanica leggera (trainata dallo sviluppo manifatturiero della zona) e destinata ad assumere presto la denominazione del suo prodotto più rappresentativo. Gli aneddoti della famiglia Fumagalli, emblema di quell’imprenditoria familiare che, nella seconda metà degli anni Sessanta, porterà il settore italiano degli elettrodomestici ai vertici della produzione europea e mondiale, raccontano che il prototipo della Candy sia stato progettato da Eden e da suo figlio Niso, disegnatore tecnico, sulla scorta degli schizzi realizzati dal secondogenito Enzo, prigioniero di guerra negli Stati Uniti, impressionato dagli avanzati modelli americani, nonché affascinato complessivamente dalla cultura d’oltreoceano. A ispirare lo stesso nome della prima lavatrice sarebbe stata, appunto, la nota canzone del pianista e cantante jazz, Nat King Cole.

Il modello presentava una fattura sperimentale e richiedeva ancora l’intervento umano per espletare tutte le sue funzioni; tuttavia, la piena funzionalità del prodotto sarebbe stata raggiunta con rapidità

Il modello presentato alla Fiera, una caldaia smaltata con vasca in alluminio, coperchio superiore e agitatore verticale all’interno, presentava una fattura sperimentale e richiedeva ancora l’intervento umano per espletare tutte le sue funzioni: doveva essere spostata, tramite le sue ruote, per caricare e scaricare l’acqua nel lavello o nella vasca da bagno ed era dotata all’esterno di un mangano che azionava manualmente i rulli di legno necessari alla strizzatura della biancheria. La piena funzionalità del prodotto, tuttavia, sarebbe stata raggiunta con grande rapidità. Nel 1957, l’azienda lanciò la prima lavatrice semi-automatica con centrifuga incorporata e l’anno successivo fu la volta della Automatic, il primo modello interamente automatico, con sospensioni antimovimento e antirumore, termostato, centrifuga e programmi di lavaggio differenziati. Parallelamente, ai primi anni Sessanta, maturò il passaggio da una produzione artigianale a una fordista, con un aumento dimensionale consistente dell’impresa, siglato dall’apertura del nuovo stabilimento di Brugherio, che impiegava una manodopera di circa 400 unità. In quegli anni, la produzione giornaliera della Candy raggiunse i 370-380 pezzi al giorno e il mercato estero affiancò sempre di più quello italiano, quale ambito di affermazione dell’azienda. Al contempo, particolare risalto venne dato alla comunicazione commerciale del prodotto, secondo una strategia che puntava a fare della Candy la lavabiancheria italiana per eccellenza, funzionale e moderna, dal design semplice e, elemento cruciale, dal prezzo competitivo, capace perciò di aggredire i segmenti medio-bassi del mercato italiano ed europeo.

Oltre a una vicenda imprenditoriale e produttiva per molti aspetti emblematica delle caratteristiche del capitalismo italiano nei Trenta Gloriosi (compreso lo sfruttamento di manodopera a basso costo), la storia della lavatrice racconta una trasformazione socio-culturale profonda e dalle implicazioni ambivalenti. Va detto innanzitutto che, coerentemente con i tratti fortemente diseguali del boom economico, che coinvolse con velocità e intensità differenziate le varie zone del Paese (città e campagna, zone costiere e di montagna, piccoli e grandi comuni) e le diverse fasce di reddito della popolazione, l’ingresso di questo bene di consumo nelle case di tutti gli italiani fu, in realtà, un processo lento, che si concluse pienamente tra anni Settanta e Ottanta. Ancora nel 1968, un’indagine campionaria, svolta dall’Enel, rilevava la presenza di una lavabiancheria nel 41,8% delle utenze domestiche considerate (una media tra il 18,2% della Basilicata e il 57,9% della Valle d’Aosta), a fronte di un 71,9% fatto registrare dal frigorifero, il cui processo di maturazione tecnologica era stato più breve, premiando così maggiormente il prodotto in termini di domanda. La lavatrice scontava, inoltre, le lentezze del processo di elettrificazione del Paese e la difforme distribuzione delle risorse idriche a uso domestico.

La lavatrice scontava le lentezze del processo di elettrificazione del Paese e la difforme distribuzione delle risorse idriche, ma la sua diffusione ha fatto parte di un unico processo di modernizzazione delle culture abitative e di consumo

Sul piano socio-culturale, tuttavia, possiamo affermare che la diffusione della lavatrice abbia fatto parte di un unico processo di modernizzazione delle culture abitative e di consumo iniziato sin dall’immediato Dopoguerra, se non prima, per certi versi. Significativamente, tale processo fu preparato dall’intenso battage dei mezzi di comunicazione che, ben prima della diffusione di massa dei moderni beni di consumo e in un clima segnato dalla Guerra fredda, dedicarono ampio spazio alla costruzione di uno scenario segnato da una presunta, imminente, «rivoluzione» domestica. Quest’ultima era connessa soprattutto alla previsione di una radicale trasformazione dei tempi e delle caratteristiche del lavoro domestico, svolto dalle donne della famiglia o dalle cameriere (destinate presto a passare da coresidenti «a ore»), nel segno di una sostituzione delle macchine ai gesti umani.

A seconda dei toni con cui questa trasformazione veniva immaginata, la «civiltà delle macchine», per citare un’espressione che non a caso diede il titolo a una raffinata pubblicazione fondata nel 1953 da Finmeccanica, assumeva ora il volto luminoso di un affrancamento definitivo dalla miseria e (specie per le donne) dalla fatica delle mansioni più degradanti del lavoro domestico, ora quello apocalittico di una quotidianità ipermoderna, atomizzata, comoda ma svuotata delle certezze della tradizione. In quest’ultima rappresentazione, evidentemente, non mancavano elementi di conservatorismo rispetto a una trasformazione dei ruoli di genere, in famiglia e nella società, di cui si temeva l’intensità: gli elettrodomestici, e prima fra tutti la lavatrice, avrebbero potuto liberare ingenti quantità di tempo nella routine quotidiana delle donne e l’interrogativo sulla destinazione di questo tempo fu sulle prime stringente.

Oggi conosciamo l’esito di questo processo e possiamo con certezza affermare che, al netto di un miglioramento straordinario delle condizioni di vita (che, tuttavia, paghiamo in termini di impatto ambientale), la modernizzazione domestica non ha prodotto una liberazione delle donne italiane dalle incombenze del cosiddetto lavoro familiare, del quale restano tutt’oggi le principali responsabili. Possiamo altresì constatare come l’affermazione della lavatrice si sia saldata con una cultura del consumo che ha saputo rispondere con efficacia all’aspirazione alla privacy e all’intimità domestica, tanto profondamente radicata e socialmente trasversale nell’Italia del secondo Novecento, quanto ancora una volta ambivalente in termini di genere. Non a caso, negli anni Sessanta, le campagne pubblicitarie della lavatrice e della lavastoviglie Candy esaltano una moderna casalinga che, liberata dal peso delle faccende, può finalmente dedicarsi a una maternità premurosa e totalizzante.