Per tutta la giornata di domenica 11 giugno 1995, gli elettori e le elettrici che si recano ai seggi elettorali ricevono dodici schede. È una tornata referendaria di quelle abbondanti, che riflette – in modo forse già un poco tardivo, stanco, svogliato persino – gli strascichi dei fermenti degli anni precedenti. C’è stata Mani pulite, c’è stato il crollo parziale del sistema dei partiti, e c’è stata un’attenzione forte all’istituto del referendum, inteso e discusso quale modo facile e immediato di interpellare direttamente la sovranità popolare. Quattro schede, un terzo di quelle disponibili, hanno a che fare con la televisione. Anche qui, è lo spirito di un tempo in cui si è provato a dare una forma più stabile a un sistema dei media cresciuto lungo gli anni Ottanta in modo sregolato, intercettando le spinte europee verso la commercializzazione “all’americana”, ma anche declinandole nella forma più ricca e spregiudicata.
Nel 1990 il Parlamento trova un accordo intorno alla timida legge Mammì, che mette su carta un sostanziale ricalco di quanto già esisteva, e apre la strada a ricorsi, sentenze e ripensamenti. La molteplicità di reti finanziate dalla pubblicità e la concorrenza alla Rai si cristallizzano in un sostanziale “duopolio”, con tre reti nazionali pubbliche e altrettante Fininvest, e cespugli altrove. Sono partiti i telegiornali delle reti commerciali e la loro diretta. Ed è nata Forza Italia, partito-azienda e partito-concessionaria di pubblicità che si presenta alle elezioni con successo immediato: l’imprenditore Silvio Berlusconi le vince e diventa Presidente del consiglio. In questa atmosfera doppiamente surriscaldata, sul versante politico come su quello mediale, a sancire un ennesimo upgrade rispetto a quel legame tra gestione della cosa pubblica e controllo della televisione che in buona sostanza si mantiene e cresce costantemente in Italia dalle origini del medium, le firme per i referendum televisivi cominciano a essere raccolte subito dopo quello che pare il punto di non ritorno, il giuramento del primo governo Berlusconi a maggio 1994.
Sono però mesi in cui tante cose, su entrambi i versanti e sul loro intreccio, si affastellano veloci: a dicembre dello stesso anno una sentenza della Corte Costituzionale invita il legislatore a cambiare la legge Mammì in senso restrittivo (le tre reti tv nazionali lasciate a uno stesso editore sono troppe); nel gennaio 1995 il governo cade, e Berlusconi è sostituito dal “tecnico” Lamberto Dini; si insedia una commissione, guidata da Giorgio Napolitano, per il riordino del sistema radiotelevisivo, che formula una prima proposta subito oggetto di discussioni infuocate; e si aggiungono i numerosi interventi, miracolosamente capaci di scontentare tutti, del Garante per la radiodiffusione e l’editoria Santaniello. Insomma, nei pochi mesi che si sono frapposti tra le firme e il voto, il clima è già cambiato: demolizioni e costruzioni, interessi e tentativi modificano il senso, il valore, l’efficacia della consultazione lungo la strada, e aggiungono caos.
Le schede di argomento televisivo son quattro, ma una è diversa dalle altre. Il quinto quesito, promosso assieme ad altri da Marco Pannella, dalla galassia radicale e dalla Lega Nord di Umberto Bossi, si occupa di televisione pubblica, e chiede agli elettori di esprimersi sulla possibilità di coinvolgere aziende private nella Rai, abrogando l’idea di un’esclusiva proprietà statale e facendo entrare altri capitali. Semplificando un po’ troppo, si discute di “privatizzazione della Rai”, anche se la lettera dei cambiamenti porterebbe in questa fase solo alla presenza di imprenditori nell’azionariato del servizio pubblico. I restanti tre referendum televisivi sono invece omogenei per storia e intendimenti, e vorrebbero agire sul settore privato, sui grandi network televisivi ormai riconosciuti ufficialmente come operatori su scala nazionale, modificando alcune parti (e alcuni equilibri pesati con il bilancino) proprio di quella legge Mammì che dopo quindici anni di sostanziale far west aveva regolato il settore radiotelevisivo. Qui è la sinistra a raccogliere le firme, con un comitato composito fatto da associazioni di volontariato, ambientaliste (Legambiente) e culturali (le cattoliche Acli, la post-comunista Arci), e i partiti solo sullo sfondo del civismo, inizialmente più convinti, e via via coinvolti sempre più obtorto collo. Il decimo quesito, il più importante, intende ridurre a una sola le reti tv nazionali che possono essere di proprietà di un singolo soggetto, imprenditore e impresa, così da evitare concentrazioni di mercato e di potere e aumentare il pluralismo; l’undicesimo quesito vuole limitare la raccolta pubblicitaria da parte di una concessionaria a un massimo di due reti televisive nazionali; il dodicesimo quesito rilancia la lotta di qualche anno prima, al grido di “non s’interrompe un’emozione”, per impedire gli spot nei film, vietando le interruzioni al di fuori dell’intervallo tra primo e secondo tempo.
Semplificando un po’ troppo, si discute di “privatizzazione della Rai”, anche se la lettera dei cambiamenti porterebbe in questa fase solo alla presenza di imprenditori nell’azionariato del servizio pubblico
Sono queste tre schede a raccogliere il maggior numero di attenzioni nella tornata referendaria, a scatenare di più il dibattito sui giornali e sulle televisioni stesse, a smuovere passioni e pulsioni. L’approvazione di queste modifiche di legge avrebbe cambiato sia il mercato tv sia quello pubblicitario rispetto ai modi in cui entrambi avevano preso forma nel ventennio precedente: nelle speranze, riducendo il debordante potere sia mediale sia politico del principale gruppo televisivo privato e aprendo margini di crescita per altri imprenditori, altre reti, altre idee; nei timori, riportando indietro le lancette dell’orologio, se non proprio agli anni del monopolio pubblico in bianco e nero, almeno ai primi caotici anni Ottanta, e così riducendo la quantità, la varietà, la sovrabbondanza di offerta (gratuita) di informazione, intrattenimento e tutto il resto.
Questi referendum toccano un nervo scoperto, pungono sul vivo. E come spesso accade diventano qualcos’altro, strumenti per misurare la temperatura del Paese rispetto ad alcune questioni, imprecise forme di misurazione di cambiamenti già avvenuti sottotraccia. La battaglia si fa scontro tra visioni del mondo. Sul fronte del sì, i comitati lamentano l’assenza dei volti più popolari e la riottosità dei partiti, organizzano manifestazioni e spettacoli di piazza, a volte si lanciano in considerazioni sprezzanti (il segretario del Pds Massimo D’Alema, come titola “Il resto del carlino”, dichiara: “La Mammì? È come Stalin: da abbattere”). Sul fronte del no, interviene Fininvest, che l’anno dopo si riorganizzerà come holding e rinominerà in Mediaset, a difesa degli interessi aziendali: tremila dipendenti dell’azienda e di Publitalia marciano a sostegno del loro posto di lavoro, i principali volti tv (Bongiorno, Corrado, Mondaini e Vianello, Scotti, Columbro) si sbilanciano per convincere chi guarda nei programmi e negli spot, i giornali alludono alla possibile vendita da parte di Berlusconi in caso di sconfitta, e persino lo speciale che festeggia i primi quindici anni di storia di Canale 5 è opportunamente collocato in palinsesto a ridosso dell’appuntamento elettorale. Se durante la campagna elettorale il risultato sembrava incerto, il responso delle urne è invece piuttosto chiaro: sulla Rai con capitali privati vince il sì (ma non succederà granché); rispetto ai limiti sul versante privato invece il no raccoglie circa il 56% su ogni quesito, non un plebiscito ma un segnale politico importante a favore di Berlusconi e soprattutto della volontà di tenere fermo quel sistema duopolistico in cui l’Italia già era scivolata.
Questi referendum toccano un nervo scoperto e come spesso accade diventano qualcos’altro. Sul fronte del sì, i comitati lamentano l’assenza dei volti più popolari. Sul fronte del no, interviene Fininvest, che l’anno dopo si riorganizzerà in Mediaset
Non è questione di scontro tra partiti, o tra visioni del mondo. Come del resto era già stato chiaro in occasione dell’oscuramento da parte dei pretori nel 1984 e delle relative proteste di piazza, e come d’altra parte ogni giorno testimoniavano i dati di ascolto che Auditel aveva cominciato a mappare dal 1986, anche la tv privata era diventata fenomeno di massa, abitudine condivisa, tratto comune per tanti. E l’errore di certa classe intellettuale e politica è stato non riconoscerlo, non capirlo. Come sintetizza Angelo Panebianco in un fondo del “Corriere della Sera” a commento dei risultati, il 13 giugno, “alla sconfitta, trascinata dalle sue correnti più estremiste, la sinistra è arrivata non per caso, ma perché ha accumulato in anni e anni tanti errori culturali e non ha mai fatto niente per correggerli”; tra questi, una diffidenza di retroguardia e la difficoltà a comprendere le trasformazioni di media e società, finendo per “mettersi in una permanente posizione, culturalmente ottusa e politicamente masochista, di mancanza di sintonia con gli orientamenti e i desideri della maggioranza italiana”. L’esito dei referendum televisivi del 1995 è solo il dito, una piccola storia di limitata importanza, mentre la luna è fatta di atteggiamenti ben più persistenti e ricchi di conseguenze.
Rileggere questi fermenti e questi dibattiti con il senno di poi mette bene in evidenza come da decenni, e forse da sempre, la televisione, il broadcasting e i media di massa siano stati e restino tuttora centrali nel nostro Paese; e come in fondo però si giri, sostanzialmente a vuoto, sempre intorno agli stessi punti.
La Rai ancora e sempre da privatizzare, soluzione irrealizzabile che ritorna puntuale a ogni ondata di lottizzazione (ma chi comprerebbe, e con quali finalità?). La concentrazione delle proprietà nei media, anche ora che i canali sono centinaia, certo, ma i monopoli digitali sono diventati ben più grandi, quasi inevitabili, e democraticamente problematici. I limiti alla raccolta pubblicitaria e alla pervasività dei suoi messaggi, mica solo nei film, ma in ogni anfratto della vita sociale e culturale. Lo scollamento tra certa politica e l’opinione pubblica, i perduranti problemi di molti con il mainstream e il popolare. E il trionfo di una vox populi cavalcata dalla tv, dai tg e dai talk, ora trionfante nello sguardo in macchina dei social, che in fondo è stata la vera vincitrice dei referendum, e in essi ha costruito un pezzettino del suo mito.
Riproduzione riservata