Il 16 luglio 1951 il ministro delle Finanze Ezio Vanoni annunciò in conferenza stampa che il successivo 10 ottobre sarebbe stato il termine per la presentazione della denuncia dei redditi percepiti nell’anno precedente. Egli dava così attuazione alla Legge n. 25 approvata l’11 gennaio di quello stesso anno, intitolata «Norme sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale straordinario», più nota come «riforma Vanoni». Oltre al riordino delle imposte dirette, la riforma introduceva per la prima volta l’obbligo per tutti i contribuenti italiani di presentare una dichiarazione annuale dei redditi, esonerando solo chi aveva entrate inferiori ai minimi imponibili. Quest’obbligo ha segnato tutti i decenni successivi, pur nel variare delle scadenze e delle modalità di presentazione, radicandosi (forzatamente) tra le abitudini degli italiani. «Domani di nuovo Ansedonia, sia per rifiatare in quel posto meraviglioso, incontrare Jeanne e darle la tua lettera e, altra fatica, varare la denuncia Vanoni a Orbetello», così nel marzo 1972 il padre di Gaia Servadio chiudeva una lettera alla figlia dopo aver commentato la difficile situazione politica del Paese.

Già alla presentazione delle prime denunce dei redditi nel 1951 si manifestarono i problemi che avrebbero caratterizzato gran parte degli anni seguenti: le lamentele per l’insufficiente disponibilità dei moduli, le lunghe code agli uffici tributari per la loro consegna o agli sportelli postali per l’invio per raccomandata e le immancabili, associate richieste di un rinvio della scadenza. Un rinvio di diciassette giorni fu effettivamente concesso, anche se il ministro Vanoni si affrettò a chiarire che non si trattava di una proroga, quanto piuttosto di un condono delle penalità che la legge prevedeva per chi avesse presentato la dichiarazione in ritardo.

Già nel 1951 si manifestarono i problemi che avrebbero caratterizzato gran parte degli anni seguenti: le lamentele per l’insufficiente disponibilità dei moduli, le lunghe code agli uffici tributari o agli sportelli postali e le immancabili richieste di un rinvio della scadenza

Il 13 dicembre il ministro illustrò i risultati completi delle dichiarazioni in una seduta della Camera dei deputati. La tempestività nella diffusione dei dati appare oggi sorprendente, considerando che l’imponente massa di documenti presentati fu elaborata senza avere strumenti informatici, ma ricorrendo al massimo alle macchine di centri meccanografici come quello dell’esattoria comunale di Milano gestito dalla Cassa di risparmio. «Una macchina misteriosa scrive i vostri segreti», titolò il Corriere d’informazione, mostrando l’immagine di una scheda perforata. Che la macchina apparisse misteriosa è molto probabile in un Paese in cui una persona su sette tra quelle con più di 14 anni si sarebbe dichiarata analfabeta al Censimento generale della popolazione in corso proprio in quelle settimane. Vanoni informò i deputati che erano stati presentati quasi quattro milioni di dichiarazioni, di cui 176.000 relative a ditte collettive. Escludendo le dichiarazioni che non davano luogo ad alcuna tassazione, quelle utilizzabili ai fini dell’imposta complementare erano poco più di un milione. Oggi, con una popolazione con più di 14 anni cresciuta del 48% rispetto al 1951, il numero delle dichiarazioni Irpef è 10 volte maggiore: nel 2020 ha superato i 41,5 milioni.

Tornando al 1951, un solo contribuente dichiarò un reddito superiore a 200 milioni di lire e fu presto identificato dalla stampa con il conte Marzotto di Valdagno. Il suo reddito di 462 milioni di lire equivale oggi a oltre 9 milioni di euro, aggiornandolo con l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati utilizzato dall’Istat per le rivalutazioni monetarie (forse non il metro più appropriato in questo caso). Quattro contribuenti denunciarono redditi compresi tra 100 e 200 milioni di lire e altri venti tra 50 e 100 milioni; secondo indiscrezioni, tra questi ultimi era l’avv. Gianni Agnelli, con un reddito dichiarato di 65 milioni di lire, quasi 1,3 milioni di euro ai prezzi attuali. Complessivamente, solo 766 contribuenti dichiararono un reddito annuo di almeno 10 milioni di lire, corrispondenti a quasi 200.000 euro odierni. A molti questi valori apparvero bassi e, fin dalla diffusione dei risultati preliminari ai primi di dicembre, divamparono le polemiche sull’evasione fiscale dei più ricchi. I «grandi contribuenti» furono accusati dallo stesso ministro di non aver fatto il proprio dovere e divennero il bersaglio delle opposizioni di sinistra, che vedevano nel loro comportamento il fallimento della riforma tributaria.

L’imposta complementare aveva il compito di rendere progressivo un sistema di tassazione complesso, che distingueva ai fini della determinazione dell’imposta dovuta tre categorie di redditi: essenzialmente, quelli da capitale, quelli misti da capitale e lavoro e quelli da solo lavoro. Pur colpendo i contribuenti con redditi relativamente più elevati, quest’imposta ha un importante valore informativo, di cui Vanoni era consapevole. Osservò infatti nel dibattito alla Camera, rinnovando una vecchia contesa tra dati amministrativi e indagini campionarie: «Questa dichiarazione è il primo elemento nella nostra storia statistica di un inizio di conoscenza della distribuzione dei redditi nel nostro Paese che abbia sufficienti elementi di contemporaneità e di completezza. Se noi non avessimo fatto questa operazione, saremmo ancora al buio intorno al particolare problema, se non attraverso indagini campione di scarsa importanza definitiva intorno alla distribuzione del reddito».

Pur colpendo i contribuenti con redditi relativamente più elevati, quest’imposta ha un importante valore informativo, di cui Vanoni era consapevole: la conoscenza della distribuzione dei redditi nel nostro Paese

Come hanno mostrato le ricerche di Tony Atkinson, Thomas Piketty e molti altri studiosi, i dati fiscali possono rivelarsi molto importanti per descrivere la distribuzione dei redditi, soprattutto di quelli più alti – gli ormai noti «top incomes». I dati italiani indicano come il numero dei contribuenti con un reddito dichiarato superiore a 200.000 euro annui (ai prezzi attuali) sia cresciuto tra il 1951 e il 2020 di 129 volte, da 766 a 98.592, e come i rispettivi redditi medi siano aumentati del 10% a 392.000 euro; allo stesso tempo, segnalano una riduzione della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, come suggerisce l’aumento del coefficiente α di Pareto da 1,95 a 2,3. Sono, queste, stime grezze, che richiederebbero un’analisi ben più accurata per rendere le fonti sottostanti maggiormente comparabili, ma sono sufficienti per testimoniare il progresso economico degli italiani negli ultimi settant’anni, almeno di quelli appartenenti ai ceti più benestanti. Con questi dati, poco si può dire, purtroppo, sulle classi meno abbienti.

La riforma Vanoni prevedeva un’aliquota crescente dal 2% per i redditi imponibili inferiori a 240.000 lire fino al 50% per i redditi pari o superiori a 500 milioni di lire. L’aliquota più alta, pari al 50%, sarebbe stata elevata al 65% nel 1962 e avrebbe raggiunto l’82% nel 1974, per scendere gradualmente nei decenni successivi fino all’attuale 43%. L’aliquota era calcolata in modo continuo secondo la formula dove x indica il valore del reddito espresso in milioni di lire. A parte rilevare il «linguaggio invero non consueto in un provvedimento legislativo», come ha scritto Onorato Castellino, è interessante che la riforma Vanoni prevedesse un’aliquota continua, un’ipotesi che i propugnatori del cosiddetto «modello tedesco» hanno reso di nuovo attuale.

Al di là delle polemiche del tempo, la riforma Vanoni ha rappresentato un passaggio significativo nella modernizzazione del sistema di tassazione italiana. Dopo settant’anni e varie altre riforme, la ricerca del sistema più adeguato non è terminata e la riforma tributaria è tornata al centro dell’agenda di governo. La sua realizzazione toccherà ancora a un montanaro delle Alpi, anche se non più della Valtellina, ma questa volta della Valbelluna.

 

[Le opinioni qui espresse sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle della Banca d’Italia].