Dunque, la crisi: siamo cambiati, il mondo è cambiato, nulla sarà più come prima. Ma anche: andrà tutto bene, programmiamo la ripresa, dobbiamo ripartire. E in entrambi i casi: ci affidiamo agli esperti, una nuova task force si occuperà del problema, sarà la scienza a decidere.
Il governo e gli esperti. Come noto, se l’incertezza per il presente immediato e per il futuro diventa dominante, è facile che agli esperti, con il loro portato di numeri, anglicismi e nuove tecnologie, siano affidati la bussola e il timone di un Paese.
Una recente inchiesta giornalistica ha cominciato a mappare il volume e le forme di questo affidamento, mettendo in luce – secondo un paradosso solo apparente – la centralità della politica nella marginalizzazione della politica. Tra le moltissime nominate negli scorsi due mesi, le strutture di esperti con più potere paiono essere tre: il Comitato tecnico-scientifico della Protezione civile, la struttura del Commissario straordinario all’emergenza e la task force di esperti in materia economica e sociale, e fanno tutte capo direttamente alla presidenza del Consiglio dei ministri, che in questa fase assume poteri che mettono in ombra non solo il Parlamento ma anche il governo. Autorevoli costituzionalisti si ritrovano sia tra i critici di tale “stato d’eccezione”, sia tra i sostenitori della sua legittimità, mentre è di alcuni giorni fa la richiesta del capo della Protezione civile di prorogare di sei mesi lo stato di emergenza.
Lo scenario si arricchisce ulteriormente se dal livello nazionale ci si sposta al livello regionale, con 16 task force e 19 unità di crisi costituite dai governatori, spesso con compiti e responsabilità non chiari. La stessa inchiesta evidenzia poi come non vi sia traccia pubblica delle discussioni e delle raccomandazioni di questi gruppi di esperti, né sia sempre pubblica la loro composizione. A tutti i livelli sono state avanzate nei confronti della scienza che questi esperti incarnano richieste molto alte, ben riassunte nelle affermazioni del governatore lombardo “la scienza ci dirà quando riaprire i negozi” e del ministro Boccia “alla scienza chiediamo certezze ferree”. Tuttavia – secondo paradosso – quando si chiede alla scienza e agli scienziati di fornire certezze indiscutibili alla politica, è la scienza stessa a diventare oggetto di contesa politica e a vedere indebolita la propria autorevolezza, alimentando quell’incertezza che si voleva combattesse.
Scienze per la certezza. Questo duplice accentramento, nelle mani del presidente del Consiglio e poi in quelle degli esperti di sua nomina, ripropone il sogno di governare attraverso la scienza che tradisce tanto il governo quanto quest’ultima, con il primo che – ricorda lo studioso del diritto Alain Supiot in un breve e denso intervento – rinuncia alla responsabilità decisionale e la seconda che rinuncia al tempo e alle controversie di cui ha bisogno per interpretare un fenomeno nuovo. Non si tratta certo di una tendenza nuova, né limitata alle scienze naturali, essendo l’economia una delle scienze sociali più fortemente coinvolte nel sogno di “governare attraverso i numeri”, per citare ancora Supiot, ed eliminare in questo modo l’incertezza che caratterizza, ancor più nelle fasi di crisi, la vita sociale. Comitato tecnico-scientifico e task force sulle questioni economico-sociali attualizzano dunque una lunga tradizione.
Non va poi dimenticato che il ruolo degli esperti economici non pesa solo sulla strategia nazionale di rilancio dell’economia ma anche su un altro tema centrale di questi mesi: la governance economico-finanziaria dell’Unione europea, con la prospettiva di mobilitazione di quel Meccanismo europeo di stabilità (Mes) che, con le sue “condizionalità automatiche”, a sua volta incarna bene il sogno di un governo che, una volta definiti gli obiettivi (che sono sempre politici), proceda (in nome della “tecnica”) senza intoppi verso la loro realizzazione, senza ulteriori intralci di una politica “litigiosa”.
Esperti ed expertise. Il Mes ci ricorda però anche che il dibattito sugli esperti deve tenere conto non solo delle persone in carne e ossa, ma anche degli strumenti con i quali queste lavorano e delle logiche e dei processi di attribuzione di valore e di priorità di cui questi “strumenti tecnici” sono intrisi: nello specifico uno strumento disegnato per attivare una sorta di pilota automatico che operi indipendentemente dai politici e dagli esperti in carica nel futuro, incarnazione della certezza della scienza che si impone sulla variabilità della volontà popolare. Lo stesso potrebbe dirsi dei diversi modelli che sono stati costruiti e discussi per ottenere proiezioni sul rapporto tra riapertura delle attività economiche ed evoluzione della pandemia, costruendo per via tecnica la terribile commisurazione tra perdita di vite umane e perdita di Pil e individuando una soglia accettabile di morti da mettere in conto per la ripartenza.
Anche qui, insieme alle persone in carne e ossa che hanno costruito questi modelli, conta l’impatto che questi ultimi hanno sulla nostra comprensione e sul nostro giudizio della realtà: sono alcuni esperti, con il loro specifico posizionamento e con i loro interessi, a costruire certi modelli (e anche, in una certa misura, a esserne costruiti) e sono questi modelli che forse lavorano più a fondo, rendendo dicibile l’indicibile. Non solo esperti dunque, ma anche expertise.
Come noto e da più parti denunciato, fin dalla fase della gestione “tecnica” della crisi finanziaria dello scorso decennio, questo ritiro della politica in favore di esperti ed expertise rischia di fare da anticamera a un più generale invito all’affievolimento del dibattito democratico e dunque alla possibilità di nominare, praticare e risolvere “in avanti” le contraddizioni e il conflitto politico-sociale: le circostanze straordinarie richiedono responsabilità, la responsabilità richiede unità ecc.
Oppure: conoscenza e partecipazione. Tuttavia, è anche possibile immaginare la crisi come un momento di rilancio verso l’alto della politica: non nella rincorsa alla polemica sterile, ma nel coinvolgimento popolare diffuso per la gestione e il superamento della crisi. Esempi non mancano nel campo economico come in quello sanitario. È stato ricordato in diversi interventi pubblici in queste settimane che la prevenzione e la tutela della salute pubblica erano previste nella riforma sanitaria del 1978 nella forma della diffusa partecipazione alla produzione scientifica e legislativa attraverso il dialogo tra saperi di carattere scientifico e saperi esperienziali, in esplicita opposizione alla “delega ai tecnici” e come esplicito risultato della stagione dei movimenti sociali e politici dei decenni precedenti.
La stessa tensione si ritrova in campo economico rispetto alla possibilità che il sapere e le conoscenze che i lavoratori hanno del processo di produzione siano riconosciuti e valorizzati. Questa potenzialità si trova oggi espressa nell’esperienza delle imprese radicalmente cooperative e in quella delle fabbriche recuperate, dove il riconoscimento del valore della conoscenza situata dei lavoratori e il contributo che può dare nel dialogo con altre conoscenze va di pari passo alla sperimentazione e alla pratica di forme organizzative che attribuiscono maggior potere ai lavoratori nell’organizzazione del lavoro. E anche qui, questo approccio apre a scenari della “ripartenza” incentrati su processi democratici e partecipativi, capaci di ridurre le gravi diseguaglianze esistenti, piuttosto che sul rafforzamento del rapporto gerarchico tra capitale e lavoro, come prefigurano invece le recenti prese di posizione della nuova direzione di Confindustria.
Scienziati coscienziosi e cittadini impegnati. L’attenzione critica all’emergere e al rafforzarsi di forme tecnocratiche di governance va dunque affiancato dalla riflessione e dalle esperienze che valorizzano la produzione di conoscenza scientifica come ambito di partecipazione sociale. Sottolineare la connessione tra sapere e potere, dare spazio e legittimità e cercare sintesi tra una molteplicità di saperi, riconoscere la polifonia di voci “esperte” sono del resto a fondamento di una molteplicità di approcci maturati tanto nelle scienze sociali quanto in quelle naturali: dall’inchiesta operaia alla sociologia pubblica, dall’Actor-network theory fino alla scienza post-normale. Si prefigura una modalità di stare nell’incertezza basata sull’accettazione di questa incertezza, piuttosto che sulla sua rimozione attraverso numeri e tabelle dai formati rassicuranti, e sullo sviluppo di risposte costruite assieme da “scienziati coscienziosi e cittadini impegnati” attraverso processi di redistribuzione piuttosto che accentramento del potere.
Si apre, si chiude. La fase 2 in cui siamo entrati è allora decisiva anche perché è quella in cui, tra le tante diagnosi e prognosi della crisi emerse nella fase 1, alcune – quelle che godranno del maggiore sostegno politico – si consolideranno per venire poi presentate come le uniche possibili, quelle “tecnicamente” migliori: due esempi di conflitto attorno a queste diagnosi e prognosi esperte si sono registrati la scorsa settimana nel campo dell’economia (quale rapporto di forze tra diverse scuole di pensiero nella disciplina?) e della medicina (chi formerà i medici dopo la pandemia?). La fine della crisi non metterà fine all’incertezza. Certamente, la riduzione delle diseguaglianze e il rilancio della partecipazione popolare alla vita politica non verranno né da una nuova delega ad esperti che lavorano nell’ombra, alimentando ogni sorta di complottismo, né attraverso una generica ostilità agli esperti, utile solo a legittimare il potere del più forte. Una via stretta ma promettente appare invece quella basata su un’altra concezione di esperti ed expertise, aperta alla molteplicità e al conflitto, e capace di trasformare tanto i partecipanti quanto il risultato del loro confronto.
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