Sono passati pochi mesi dalle occupazioni e dagli sgomberi alle Università di Pisa, Torino e Milano, tra il febbraio e il novembre del 1967, quando inizia l’occupazione di quasi tutti gli atenei italiani. Se gli studenti universitari utilizzano, come casus belli, il progetto di riforma universitaria apprestato dal governo, in realtà è entro un quadro ben più ampio che se ne collocano le motivazioni più profonde, ossia lo scontro, per così dire, epocale, tra gli apologeti della civiltà capitalistica e i suoi detrattori. Gli occupanti intendono sferrare un attacco teorico e pratico alla società tout court e ai suoi meccanismi repressivi, per trasformare l’alienazione e la passivizzazione in liberazione e presa di parola, spazio, tempo, esperienza vitale.
Il nemico più prossimo e facilmente individuabile per gli studenti è proprio «il sapere»: la sua pretesa di dominio fondata su una presunta obiettività super partes, nonché la sua organizzazione – a partire, naturalmente, da «apparati ideologici di Stato» come scuola e università. Il fattore probabilmente decisivo nel portare i giovani ad adottare pratiche sempre più perturbative, fino allo «scontro di piazza» con i tutori dell’ordine, è proprio l’aver fatto esperienza di un sapere scientifico che, in un modo fino a quel momento inedito, minaccia direttamente l’esistenza stessa dell’umanità. Questo rende all’epoca impossibile non porsi, in modo radicale, il problema del «che fare» (e del «che agire») nei confronti di una situazione da cui non sembra possibile uscire se non facendo ricorso alla forza. Come scriverà Jerome Lettvin sul «New York Times Magazine» nel maggio di quel 1968, «non è rimasta neanche una maledetta cosa che uno possa fare che non possa venire trasformata in guerra».
I giovani della sinistra marxista extraparlamentare iniziano allora a leggere nel sapere tecnico-scientifico il capitale come totalità sociale cui opporre una replica studentesca (e operaia) sul suo stesso piano di realtà. Lo scenario internazionale dell’epoca sembra confermare una simile lettura. L’abissale sproporzione nel dispiego di forze del contesto bellico indocinese – da una parte la macchina bellica del Golia americano, dall’altra la disperata guerriglia del David vietnamita – non sembra che la conferma che il «sistema» non soltanto opera nel senso di una repressione implicita (attraverso le sirene del benessere e della felicità consumistica) ma anche nel segno di una violenza diretta ed esplicita nei confronti dei popoli.
È in questo contesto che il 1° marzo 1968 si svolge la vicenda che verrà in seguito ricordata come la «battaglia di Valle Giulia». A scatenarla la decisione del rettore dell’Università di Roma, Pietro Agostino D’Avack, di far sgomberare gli atenei occupati. Ma anche, con tutta probabilità, la pesantissima repressione riversata sui giovani già dal 1967 e che raggiunge il suo apice proprio in quei primi mesi del 1968. Quel giorno, con l’obiettivo di «riprendersi» la facoltà di Architettura a Villa Borghese, diverse migliaia di studenti partono da piazza di Spagna alla volta dell’ateneo, controllato dalle forze dell’ordine.
La «battaglia» si apre con un lancio di uova degli studenti nei confronti dei celerini e le conseguenti cariche della polizia. In breve, si accendono scontri furibondi e improvvisati che durano diverse ore, anche facendo ricorso ad armi improprie, sassaiole, corpo a corpo e lancio di candelotti. Il bilancio è di diversi pullman, jeep e bus dati alle fiamme, 150 poliziotti feriti, 50 dimostranti medicati e il fermo di più di 200 persone. Ma l’evento porta con sé i segni di una svolta significativa. Fino a quel momento, certamente era successo che ci fossero tafferugli tra estremisti di sinistra e servizi d’ordine del Pci; e la polizia per riportare l’ordine aveva caricato, fermato e arrestato i dimostranti. Ma Valle Giulia fu qualcosa di più: fu una «battaglia di strada», come afferma più di un testimone. Nonostante la determinazione mostrata dagli studenti, la reconquista della facoltà fallì.
Valle Giulia fu qualcosa fu una "battaglia di strada", come afferma più di un testimone. Nonostante la determinazione mostrata dagli studenti, la reconquista della facoltà fallì
Cosa ci dicono, oggi, i fatti di Valle Giulia? Oreste Scalzone (uno dei leader del movimento), ha affermato che essi non debbano essere interpretati in altro modo che come la manifestazione spontanea e immediata della volontà di riprendersi i propri spazi. Ma resta il fatto che con la decisione di «cacciar via la polizia» – e con il «non siam scappati più», come canterà poi Paolo Pietrangeli – il movimento studentesco di Roma, in sostanza, ha celebrato il suo battesimo del fuoco contribuendo a ridefinire, in modo irreversibile, il rapporto tra lo Stato e il cittadino italiano, il movimento e i partiti, giovani e vecchi, padri e figli, uomini e donne.
La violenza praticata dai giovani del movimento in quelle ore di scontri va riletta come una disperata reazione alla mancanza di senso che essi individuavano nella società adulta, vista come ormai dominata dalla potenza tecnocratica del capitalismo al suo massimo dispiegamento. Eppure, secondo Pierpaolo Pasolini, come è noto, quei giovani erano figli di papà che avevano «lo stesso occhio cattivo» dei loro genitori e che nella prepotenza e sicurezza di sé manifestavano le loro caratteristiche antropologiche di «piccolo-borghesi». Ben diverso, invece, il ritratto dedicato, in quella celebre poesia intitolata Il Pci ai giovani, ai rappresentanti delle forze dell’ordine, costretti a odiare in quanto odiati, espressioni pure di un sottoproletariato degno semmai di commiserazione. Pasolini, e non solo lui, ma anche gran parte della stampa (anche comunista), non riusciva a leggere nel passaggio all’atto di quei giovani la verità psicologica di una domanda di senso che, indipendentemente dal profilo sociale del movimento (che oggettivamente era costituito da un ceto studentesco di origine borghese), non poté più essere riassorbita e metabolizzata dallo statu quo politico, istituzionale e culturale.
Per certi versi, dunque, la «battaglia di Valle Giulia» pare riassumere la fisionomia ideologica del Sessantotto come evento puro, di cesura, scarto e rottura – in breve, come pars destruens. Ma, a guardar bene, non si trattò solo di questo. La distruzione del principio di autorità, implicita nella reazione violenta alla violenza organizzata dello Stato tramite le forze dell’«ordine», implicò anche una pars construens, sebbene non immediatamente visibile; gli studenti avevano fatto per la prima volta ricorso alla forza, una forza che non aveva altra efficacia reale se non sul piano simbolico. Se ha ragione Jean Baudrillard laddove afferma che è solo la violenza simbolica a generare singolarità, dobbiamo attribuire a quella scelta la responsabilità di avere introdotto trasformazioni importanti nel mondo giovanile tanto sul piano della consapevolezza di sé quanto del proprio rapporto con l’universo circostante. Non è un caso che il Sessantotto, col suo repertorio di gesti simbolici di rottura, abbia avuto strascichi sia nella società civile – modernizzandone usi e costumi – sia nei luoghi istituzionali del potere: dalla magistratura, alle forze armate, alla polizia.
È proprio nel fatto che intervenne anche nella cultura di questi luoghi che si può misurare la portata della trasformazione culturale prodotta dalla «stagione dei movimenti». Che ne è rimasto oggi? Negli ultimi trent’anni, al ’68 è stato attribuito un po’ di tutto: d’aver favorito il lassismo, la fine dell’autorità, la dissoluzione dei legami sociali, la crisi della rappresentanza, la disintermediazione. S’ignora, però, che dopo il ’68 abbiamo avuto le bombe di Stato, il terrorismo e poi il «riflusso nel privato». Oggi, invece, viviamo nell’epoca del non-evento.
È certamente lecito chiedersi se i giovani dei nostri tempi dispongano di una vera predisposizione al confronto, anche violento, con lo Stato, il "potere", le "istituzioni della violenza"
Ma la storia è sempre imprevedibile. È certamente lecito chiedersi se i giovani dei nostri tempi dispongano di una vera predisposizione al confronto, anche violento, con lo Stato, il «potere», le «istituzioni della violenza». Li si potrà accusare di rimanere inermi e passivi di fronte all’impianto panottico della società della Rete e del controllo. Tuttavia è giusto riconoscere che nuovi temi, a partire dalla questione climatica, stanno facendo uscire all’aperto inedite soggettività plurali che, in mezzo a tante contraddizioni, fanno emergere una nuova consapevolezza globale antisistemica: la forza collettiva di chiedere, pretendere, forzare il «cambiamento».
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