In una congiuntura globale contrassegnata dallo sgretolamento della teoria della «fine della storia», dal «ritorno della geopolitica» e dalla crisi profonda del «nuovo ordine mondiale», favorita dall’attivismo delle potenze «revisioniste» (Cina, Russia, Iran) ma anche dalle conseguenze degli interventi statunitensi in Medio Oriente e dal protagonismo imprevedibile della Turchia di Erdogan, i rapporti tra Russia ed Europa sono, come da tempo non accadeva, dominati da paure e accuse reciproche e percorsi da un pessimismo di fondo.

La svolta si è verificata a partire dal 2014, quando il divampare della crisi ucraina ha prodotto l’annessione della Crimea, una sanguinosa guerra nel Donbass – «congelata» dagli accordi di Minsk, ma ancora capace di mietere vittime –, le sanzioni economiche. Ha prodotto inoltre l’escalation nel dispiegamento di armi e uomini nei Paesi orientali dell’Unione Europea da parte di una Nato rivitalizzata, che ha confermato questo riorientamento con le decisioni assunte nel vertice di Varsavia del luglio 2016, e la risposta della Russia con la dislocazione in ottobre degli Iskander nella base di Kaliningrad. Elementi ulteriori di tensione scaturiscono dalle divergenze sul problema siriano e, soprattutto, dalle accuse ai russi di aver favorito con metodi indebiti l’elezione di Trump.

In un’Europa incerta, il 2017 si apre con i timori per possibili ingerenze russe nelle campagne elettorali di Francia e Germania e con preoccupanti scenari di una "nuova guerra fredda"

In un’Europa incerta, preoccupata per la propria tenuta e tutt’altro che compatta, il 2017 si apre con i timori per possibili ingerenze russe nelle campagne elettorali di Francia e Germania e con preoccupanti scenari di una «nuova guerra fredda», i cui epicentri militari sarebbero almeno due: la regione baltico-polacca a nord e i territori a ridosso del mar Nero compresi tra la Transnistria e le Repubbliche popolari di Doneck e Lugansk a sud.

In un bel libro dedicato alle immagini dell’Altro nella costruzione dell’identità europea (Uses of the Other, 1999) Iver Neumann ha richiamato l’attenzione sulla plurisecolare rappresentazione della Russia come una sorta di «pangolino dell’Europa» (animale con caratteristiche ibride, che perciò occupa un posto unico e scomodo nella tassonomia), e come un Paese che ricopre il ruolo di eterno apprendista alla scuola della civiltà europea: un allievo ricco di risorse ma problematico, che ha sempre ancora molta strada da fare. In alcune fasi storiche ha prevalso d’altro canto la percezione della Russia come minacciosa barbarie orientale alle porte dell’Europa. In questo processo di «asiatizzazione» (Larry Wolff, Inventing Eastern Europe, 1994) un ruolo significativo è stato svolto dai Paesi collocati lungo il margine occidentale russo, in particolare dalla Polonia, sovente autorappresentatasi come ultimo baluardo dell’Europa civile a fronte del dispotismo di ascendenze «mongolo-tartare» della Russia, prima di divenire, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, parte dell’Europa «rapita» e tenuta in ostaggio dalla «barbarie asiatica» sovietica.

Un secolo fa, nel 1917, mentre partecipava alla Prima guerra mondiale al fianco dei Paesi dell’Intesa, la Russia fu scossa da due rivoluzioni destinate a cambiare volto e destino del Paese, dell’Europa e in prospettiva del mondo. In febbraio, con l’abbattimento dello zarismo e l’instaurazione di un regime democratico, la nuova Russia sembrava aver portato a compimento il processo di convergenza con l’Europa/Occidente inaugurato nel 1906, a proposito del quale Martin Malia ha coniato l’espressione «la Russia come Europa riconquistata» (Russia under Western Eyes, 1999). Pochi mesi dopo, con l’Ottobre, si incamminava invece lungo un percorso dagli esiti imprevedibili, che operava una rottura profonda con l’obiettivo della «europeizzazione», e si candidava, pur latecomer sulla scena del progresso, a costituire un’alternativa di sistema al mondo capitalistico occidentale. Durante gli anni caotici delle guerre civili e della guerra russo-polacca (1918-1921) sembrava che nell’immenso spazio ex imperiale dovessero prevalere le spinte disgregatrici, ed erano in pochi a scommettere sulla durata e solidità del neonato regime sovietico. Quest’ultimo dal canto suo non si limitò a sopravvivere, ma innescò un processo centripeto che ha condotto gli storici a rimarcare la continuità geopolitica tra impero zarista e «impero» sovietico, e a considerare davvero concluso il ciclo imperiale russo solo con la dissoluzione dell’Urss nel 1991.

All’inizio del XXI secolo Dmitri Trenin (The End of Eurasia, 2002) constatava il superamento da parte della Russia del «modello della fenice», di un impero cioè che aspira a rinascere dalle proprie ceneri. Questa affermazione è valida ancora oggi, anche dopo gli interventi in Georgia (2008), Ucraina (2014) e Siria (2015-16), a dispetto di quello che sostengono, da opposti versanti, le élite russofobe della cintura di Stati che corre dal Mar Baltico al Mar Nero e i nazionalisti russi mobilitati in nome dell’irredentismo, del rientro cioè nei confini della Federazione della popolazione russa residente nei Paesi dell’«Estero vicino». La Russia di Putin però, dopo la prolungata umiliazione degli anni Novanta, quando, per citare Zbigniew Brzezinski (The Great Chessboard, 1997), la disintegrazione dell’Urss «aveva creato un "buco nero" nel cuore dell’Eurasia» e la Russia «era vista da molti come poco più di una potenza regionale del Terzo mondo», ha inteso riaffermare in senso pieno la propria sovranità e rivendicare la legittimità della difesa degli interessi di potenza dello Stato russo in un mondo multipolare. Gli storici avevano meno di altri il diritto di stupirsi per questi sviluppi, ed è utile a riguardo ricordare le parole di Dominic Lieven (Empire, 2000): «I russi […] non sono stati oggetti inerti del potere europeo-occidentale e nord-americano. Essi hanno combattuto con immenso coraggio, brutalità e perseveranza per ricavarsi una nicchia autentica, distinta e indipendente dentro la modernità. Ma tutta la loro storia moderna è stata influenzata in modo determinante dal dato di fatto della loro debolezza relativa», della quale sono divenuti acutamente consapevoli prima di altri in virtù «della loro prossimità geografica ai nuclei centrali del potere europeo».

Enfatizzare la minaccia russa e sostenere, che la Russia aspirerebbe ad affermare la propria egemonia sull’Europa significa agitare spettri che sono di poco aiuto nel favorire una comprensione delle sfide politiche realmente sul tappeto

Enfatizzare la minaccia russa e sostenere, come oggi fanno alcuni (non solo George Soros), che la Russia aspirerebbe ad affermare la propria egemonia sull’Europa significa agitare spettri che sono di poco aiuto nel favorire una comprensione delle sfide politiche realmente sul tappeto. D’altro canto sono apparsi inutilmente provocatori atteggiamenti volti a sminuirne il ruolo internazionale, esemplificati dalle dichiarazioni rilasciate da Obama dopo l’annessione della Crimea riguardo alla Russia come «potenza regionale» che agisce «sulla base della debolezza». Più proficuo sarebbe cercare di comprendere la logica dell’interlocutore, e la complessità del suo background storico, attingendo spunti anche da studi come quello di Andrei Tsygankov, dedicato al ruolo svolto dall’onore nella politica estera russa (Russia and the West from Alexander to Putin. Honor in International Relations, 2012), nel quale si illustra la modulazione di difensivismo, cooperazione e assertività che caratterizza le relazioni russe con l’Europa/Occidente in epoca zarista, sovietica e post-sovietica.

Intanto, le indagini sociologiche più recenti rilevano una percezione negativa dell’Europa tra i cittadini della Federazione russa quale non si era riscontrata da tempo, che non può essere esclusivamente interpretata come il prodotto della pur intensa propaganda ufficiale. Le sanzioni economiche hanno imposto alla Russia di Putin di provare a spostare il baricentro del Paese verso l’Asia, e non mancano intellettuali e analisti russi che invitano ad abbandonare finalmente l’eurocentrismo che ha dominato per secoli la visione del mondo delle élite russe, per operare un salutare «distanziamento» della Russia dall’Europa che vada oltre la contingenza delle attuali difficoltà economiche.