Gli afroamericani tra Obama e Trump. Non ci avevamo creduto, ma un po’ ci avevamo sperato. Quando otto anni fa gli Obama sono entrati nella Casa Bianca, sapevamo di non essere di fronte a una nuova era post-razziale per gli Stati Uniti. Non è stato così infatti e non c’era bisogno dell’elezione di Donald Trump per ricordarcelo. Negli anni della presidenza Obama sono infatti esplose con forza tensioni razziali, a lungo parzialmente sommerse, che hanno riportato fette importanti dell’opinione pubblica statunitense – galvanizzate dal «fenomeno Obama» – a riconsiderare più pragmaticamente lo stato dei rapporti razziali negli Stati Uniti. Lo ha detto lo stesso presidente uscente nel suo discorso di commiato: considerare la sua elezione come il punto conclusivo del cammino verso l’uguaglianza era irreale e precoce. Il suo rapporto con le problematiche legate al colore della pelle, in questi anni, è stato altalenante e rapsodico. Quelli che si aspettavano che avrebbe affrontato da subito la questione razziale sono rimasti delusi.

I suoi primi due anni alla Casa Bianca sono stati piuttosto caratterizzati da una timidezza a tratti disorientante nell’affrontare tutto ciò che riguardasse «la linea del colore», come quando rispose a un giornalista che gli chiedeva quali politiche avrebbe intrapreso per le comunità nere: creare posti di lavoro, disse. Era quello un Obama che voleva capitalizzare al meglio l’opportunità di avere un Congresso a maggioranza democratica per promuovere il suo primo obiettivo, la riforma sanitaria, e che cercava costantemente di evitare che il sostegno elettorale di cui godeva si corrodesse su questioni potenzialmente divisive come quella razziale. D’altronde, della riforma sanitaria avrebbe beneficiato una porzione importante della popolazione più povera degli Stati Uniti, di cui gli afroamericani costituiscono una parte rilevante. Il suo tentativo di evitare di parlare di razza è stato però progressivamente messo in crisi dalle contingenze, dai numerosi omicidi di giovani neri disarmati da parte delle forze di polizia. Le violenze degli agenti non erano certo una novità della sua presidenza, gli omicidi e l’eccessivo uso della forza, infatti, assieme alla profilazione razziale, sono una costante per le comunità nere dai tempi della schiavitù, secondo una logica razzista che associa la criminalità alla gioventù afroamericana.

In questi anni si sono però palesati con forza problemi strutturali prima solo incidentalmente presi in considerazione dall’opinione pubblica (bianca) per due ragioni: i numerosi video che hanno ripreso le uccisioni di neri disarmati, mostrando al mondo episodi di violenza insensata, e il conseguente risorgere di movimenti di protesta, con attivisti che sono riusciti a organizzare masse pronte a scendere in strada. Movimenti come Black Lives Matter hanno portato Obama a parlare di razza sempre più spesso e con più coraggio, e gli hanno permesso di ristabilire un dialogo sia con figure storiche dell’attivismo afroamericano sia con i giovani neri che nel 2008 avevano riposto in lui forti speranze di cambiamento. Questioni come quella della riforma del sistema di giustizia penale, un sistema corrotto che tiene in carcere più di 2 milioni di persone (in buona parte maschi neri), sono così entrate nell’agenda del presidente.

Una lenta ma progressiva decriminalizzazione dei reati non violenti promossa dai due procuratori generali delle sue amministrazioni, Eric Holder e Loretta Lynch, è andata nella direzione di una riforma, anche se spesso ha solo indicato una strada, più che offerto risposte. Significativa in questo senso è stata anche la decisione di Obama di commutare le pene di più di 1.700 detenuti che avevano ricevuto sentenze spesso sproporzionate per i reati commessi (nella maggioranza dei casi legati all’uso e allo spaccio di droga).

Sul fronte repubblicano, la radicalizzazione del partito avvenuta durante la presidenza Obama ha favorito l’elezione di un presidente che, più che un «fenomeno», appare il risultato della diffusione delle istanze promosse dal Tea Party a partire dal 2009-2010. Nel Partito repubblicano si è assistito così alla normalizzazione di un linguaggio razzista e xenofobo di cui Trump si è fatto portatore con offese a minoranze etniche e religiose, corollate da attacchi personali ai suoi avversari. Attacchi spesso scomposti, come quello di qualche giorno fa a John Lewis, il più importante attivista afroamericano della stagione dei diritti civili, collaboratore e amico di Martin Luther King e membro del Congresso, che sarebbe secondo il neo presidente «tutto fumo e niente arrosto» («all talk, no action»). Detto a uno che rischiò di essere ucciso dalle manganellate della polizia durante la marcia da Selma a Montgomery nel 1965 e che è considerato una leggenda vivente non solo dagli afroamericani, ma anche dai democratici e dai repubblicani del Congresso, rende la cosa ancora più grottesca. Il riaffiorare di organizzazioni suprematiste bianche come il Ku Klux Klan, solo a tratti respinte da Trump, e la scelta di una squadra di governo radicale e controversa, hanno infine sotterrato le speranze di coloro che auspicavano una moderazione post-elettorale dei toni.

Tra i più controversi membri del nuovo governo c’è Jeff Sessions, indicato dal presidente come probabile capo del dipartimento di Giustizia – ruolo da cui è appena stata licenziata Sally Yates per non aver difeso il decreto sull’immigrazione di Trump. Nel 1986 Sessions non riuscì a ottenere la nomina a giudice federale a causa di diversi episodi in cui si era macchiato di atteggiamenti razzisti e discriminatori nei confronti di afroamericani. In quell’occasione la moglie di King, Coretta Scott, scrisse una lettera alla commissione del Senato dicendo che la nomina di Sessions avrebbe «irrimediabilmente compromesso il lavoro di suo marito». Se confermato, Sessions dovrà proteggere i diritti di quelle minoranze che ha attaccato per tutta la sua carriera. Quelli della presidenza Trump saranno, insomma, anni di forti tensioni, tempi difficili che richiederanno risposte straordinarie, come quelle che gli attivisti di Black Lives Matter si preparano a dare per tenere alto il livello di guardia sui diritti delle minoranze. Qualche anno fa la poetessa afroamericana Alice Walker titolava una raccolta di poesie Hard times require furious dancing. Allora, che le danze abbiano inizio.

 

[Su questi temi, si veda nel numero 5/2016 dedicato a un bilancio della presidenza Obama: E. Vezzosi, Se la società post-razziale non esiste]