L’articolo 34 della Costituzione lo dichiara in modo esplicito: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Eppure, il Parlamento della Repubblica italiana ha impiegato 15 anni (dal 1° gennaio 1948 al 31 dicembre 1962) per dargli concreta attuazione. La Legge è la n. 1859 dell’ultimo giorno dell’anno. Il testo è brevissimo, quasi lapidario, a partire proprio dal primo articolo: “In attuazione dell’articolo 34 della Costituzione, l’istruzione obbligatoria successiva a quella elementare è impartita gratuitamente nella scuola media, che ha la durata di tre anni ed è scuola secondaria di primo grado. La scuola media concorre a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e favorisce l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attività successiva”.
In realtà, in ossequio formale alle Convenzioni internazionali in materia, l’obbligo di istruzione fino a 14 anni era già stato adottato dalla cosiddetta Riforma Gentile, nel 1923, ma prevedeva la possibilità di assolverlo scegliendo di frequentare o la scuola media (superando preventivamente un ostico esame di ammissione) o le scuole di avviamento professionale, o anche attraverso forme mai ben normate di insegnamento genitoriale. Col risultato di determinare enormi fenomeni di evasione, con particolare riferimento alle bambine e alle zone più povere del Paese, e comunque un’evidente selezione classista degli allievi destinati a proseguire gli studi: solo quelli che avevano superato la scuola media, mentre la massa dei figli delle classi meno abbienti terminava con la fine dell’avviamento.
È quindi solo con la 1859, indicata da molti come uno dei primi risultati del centrosinistra, che il diritto/dovere all’istruzione elementare trova progressivamente una risposta generalizzata facendo crescere in dieci anni da meno del 50% a più dell’80% il numero dei cittadini in possesso di licenza di scuola media. I motivi alla base del ritardo, scandaloso rispetto alle scelte degli altri Paesi europei, appaiono essere principalmente due. Da un lato, il tentativo continuo della Democrazia cristiana di individuare i modi per superare l’obbligo costituzionale (articolo 33) di non prevedere finanziamenti per le scuole private ricercando soluzioni che privilegiassero o comunque sostenessero gli Istituti scolastici afferenti al mondo cattolico. Dall’altro lato, la difficoltà, anche interna alle opposizioni, di rinunciare alla vecchia tradizione culturale di un percorso scolastico fondato su di un approccio umanistico incentrato sull’insegnamento del latino.
In definitiva, è proprio il dibattito sulla conservazione o l’abolizione del latino come materia obbligatoria a occupare le cronache del lungo percorso parlamentare verso la 1859. Come si è accennato, il tema non divideva soltanto maggioranza e opposizione, ma apriva accesi fronti interni in entrambi gli schieramenti. All’interno del Pci, in particolare, si contrapponevano le posizioni di scienziati come Lucio Lombardo Radice e di umanisti come Concetto Marchesi. Di quest’ultimo si ricorda l’appello a non trasformare il marxismo in uno “stagno per ranocchi” appoggiando riforme che abolendo l’obbligatorietà del latino potessero dar vita a percorsi scolastici differenziati per le élite e per il popolo. Veniva richiamata da Marchesi l’indicazione espressa da Gramsci nei Quaderni dal carcere contro ogni scuola solo professionalizzante che rinunciasse alle valenze critico-formative che una scuola umanistica di alto livello avrebbe dovuto offrire a tutti, proprio in funzione dell’emancipazione del popolo, a prescindere dalle competenze pratiche richieste per l’inserimento nel mondo del lavoro. Sulle tesi di Lombardo Radice - più attento alla cultura scientifica, all’evoluzione della cultura internazionale e alla necessità di superare la valenza selettiva dei modelli scolastici tradizionali - si ritrovavano anche umanisti come Antonio Banfi e, per ricordare l’Accademia bolognese, Giovanni Maria Bertin, suo discepolo. Da ricordare infine, nel febbraio 1962, a ridosso della 1859, la difesa del valore culturale e formativo del latino formulata da Papa Giovanni XXIII nell’Enciclica Veterum sapientia. Riguardava direttamente la lingua ecclesiastica e si trattava probabilmente di un tentativo di sterilizzare le posizioni più conservatrici della Chiesa, urtata dai grandi cambiamenti introdotti dal Concilio, ma fu da più parti strumentalizzata come posizione dei cattolici in difesa dei programmi scolastici vigenti.
Alla fine, la 1859 passò in Parlamento con il voto contrario delle destre (Msi e Pli) e del Pci. Il voto contrario di quest’ultimo non fu certamente motivato dall’abolizione del latino, bensì almeno in parte dall’ambiguità della sua conservazione in seconda media come “Elementi di latino” e in terza come disciplina opzionale, obbligatoria per chi intendesse iscriversi successivamente al liceo classico. Più in generale, il Pci (comunque interessato a non avallare le politiche del centro sinistra e dei socialisti) lamentava la debolezza complessiva dell’impianto formativo della 1859, con poche ore di insegnamento della matematica e delle scienze e nessuna di musica per un complessivo settimanale di sole 25 ore.
I programmi della nuova scuola media “unica” rimasero per molto tempo del tutto omologhi, con l’eccezione del diverso trattamento del latino, a quelli della scuola media precedente. Ne conservarono tutti gli elementi di selettività e di sostanziale disattenzione nei confronti di una popolazione studentesca ancora prevalentemente dialettofona e scarsamente preparata all’astrazione disciplinare, come denunciarono con vigore Don Milani e i suoi allievi di Barbiana nella loro Lettera a una professoressa, nel 1967. Fu necessario aspettare la Legge 348 del 1977 per avviare l’elaborazione dei nuovi programmi che nel 1979 sancirono l’abolizione totale del latino, il potenziamento degli insegnamenti scientifici, l’introduzione dell’educazione musicale, in un quadro settimanale di 30 ore.
Con tutti i suoi limiti, la 1859 rappresenta comunque un punto di svolta epocale dalla scuola tradizionale alla scuola contemporanea. Almeno da un punto di vista formale è da essa che parte in Italia il fenomeno della scolarizzazione di massa, con tutte le sue ricadute in termini di riforma degli Istituti scolastici successivi, all’interno di un percorso di sviluppo che vede ancora la realtà italiana pesantemente in ritardo rispetto alle maggiori nazioni europee per numero di cittadini in possesso della licenza di scuola secondaria superiore e della laurea. Da questo stesso punto di vista fu una legge coraggiosa, anche se tuttora non mancano convegni residuali e prese di posizione estemporanee che addebitano all’abolizione del latino molti dei mali della scuola contemporanea. Scaricò sugli enti locali gran parte delle spese non affrontando né i problemi dell’edilizia scolastica, né quelli connessi con la formazione professionale degli insegnanti, né infine quelli legati all’inclusione delle persone con disabilità e ai costi dell’istruzione per le famiglie. Sono comunque problemi che gran parte non risolti nemmeno dal cinquantennio di legislazione successiva.
In conclusione, è doveroso effettuare un’osservazione a proposito di una legge quasi dimenticata, la 478 del giugno 1961: è difficile trovarne traccia perfino nei testi più accreditati di storia della scuola. Si tratta di un provvedimento presentato e difeso come semplice misura tecnica dall’allora ministro Bosco che determinò l’abolizione dell’esame di ammissione alla scuola media. In termini quantitativi è innegabile che tale scelta portò a un’esplosione delle iscrizioni e spianò di fatto la strada alla chiusura delle scuole di avviamento professionale e all’istituzione, nel 1962 con la 1859, della scuola media statale unica e per tutti.
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