Il titolo del volume di Gian Enrico Rusconi, La teologia narrativa di papa Francesco, corrisponde al contenuto: il celebre germanista non si accontenta di analizzare il papato di Bergoglio dal punto di vista dei suoi effetti sul sistema delle relazioni internazionali, bensì si occupa precisamente di teologia. Il fatto, in un Paese come il nostro, nel quale tale disciplina non ha alcuno spazio nel dibattito culturale, è notevole. La teologia di Francesco è, secondo Rusconi, «narrativa». Teologia narrativa significa qui per l'autore un discorso che prende le distanze dagli stili di pensiero deduttivi e argomentativi che vengono identificati con la corrente principale della tradizione cristiana.

Il cuore del pensiero di Francesco è individuato, inevitabilmente, nella concentrazione sul Dio misericordioso: misericordia non è una dimensione, accanto ad altre, dell'agire di Dio, bensì esprime il suo stesso essere. Qui però, secondo Rusconi, il pensiero bergogliano entra in contrasto con la tradizione dottrinale della Chiesa. L'idea cristiana di redenzione, che include la nozione di misericordia, risulterebbe comprensibile solo nel quadro della dottrina del peccato originale: la colpa dei progenitori, che si trasmette all'umanità, richiede, per essere perdonata, la sofferenza salvifica del Figlio di Dio, secondo la dottrina di Anselmo, «la mente più lucida del pensiero medievale».

L'autore è molto colpito da ciò che gli appare come una novità teologica bergogliana, ma deve ammettere che anche Ratzinger, non proprio un campione di liberalismo teologico, si allontana da Anselmo, rifiutando l'idea di una crudele giustizia divina, «senza accorgersi della incongruenza in cui cade». La dottrina che Rusconi colloca sull'asse Agostino-Anselmo gli appare più coerente e solida rispetto alle contemporanee riflessioni sulla sofferenza di Dio, fatte proprie anche da Bergoglio. Il pontefice, cioè, scivolerebbe, con la sua «teologia narrativa», verso un'argomentazione retoricamente efficace e coinvolgente, ma carente dal punto di vista teologico, dimenticando, ad esempio, la «necessità logico-metafisica della punizione». I grandi temi della colpa, della sofferenza e dell'ira di Dio sarebbero quasi annegati nella celebrazione del Dio di misericordia.

Anche la passione ecumenica del papa andrebbe considerata in termini più prudenti: al di là degli entusiasmi e della retorica, le differenze tra cattolici e luterani rimarrebbero decisive. Si coglie nel volume una riserva, a volte condivisibile (cfr. ad esempio il cap. VII, L'irrisolta questione del genere), nei confronti di entusiasmi apologetici piuttosto indifferenziati, nei quali l'applauso censura ogni interrogativo critico. In effetti il messaggio del papa ha poco da guadagnare da questo «franceschismo» di maniera, e molte domande dell'autore (da quelle sulla morale sessuale a quelle sull'anti-intellettualismo del papa) potrebbero aiutare una discussione meno convenzionalmente celebrativa. Le osservazioni che seguono non intendono ritrattare tale apprezzamento: anzi, di fronte a un libro «discutibile», che cioè fa discutere, su fede e teologia, ci si potrebbe limitare a ringraziare chi l'ha scritto. Se andiamo un poco oltre, è solo perché il lettore di formazione teologica incontra alcune perplessità, non solo nei confronti di diverse tesi particolari, ma anche e soprattutto nell'idea di fede cristiana e di dottrina sottesa a tutta l'argomentazione del libro.

A parere dell'autore, la predicazione di Francesco costituisce un'innovazione radicale e, a volte, come si è detto, non del tutto coerente con le premesse della tradizione cristiana. Il fatto è che tali dottrine classiche sono considerate, da diversi secoli, strumenti di interpretazione della Bibbia, «modelli concettuali» certo autorevolissimi, ma non identificabili con una riproduzione per così dire fotografica della realtà di Dio (caratteristica, in tal senso, la discussione critica con Giovanni Ferretti sull'idea di sacrificio che può trovarsi all’interno del volume). Non sono certo Francesco e Ratzinger i primi a problematizzare Anselmo, né il racconto di Genesi 3 è identificato senza riserve con la dottrina agostiniana del peccato originale, la quale, a sua volta, è oggetto di riletture di portata piuttosto ampia. Il «funzionamento» delle dottrine cristiane è assai diverso da quello, diciamo «cartesiano», che Rusconi si immagina e rispetto al quale Francesco innoverebbe.

A ciò si aggiungono alcune inesattezze. Ad esempio, che «la giustificazione dell'uomo davanti a Dio significa il suo [dell'uomo] sforzo per comportarsi da “giusto” davanti a lui» costituisce una presentazione a dir poco problematica della discussione occidentale su questo punto, e nemmeno il Concilio di Trento la pensa così; che, quando sostiene il primato della grazia sulla legge, «la legge di cui parla il papa è quella del codice canonico» è assai più che riduttivo, per chi conosca, anche superficialmente, il significato di «legge» in Paolo, Agostino e, dunque, nel cattolicesimo e nel protestantesimo; che la distinzione «tra peccato oggettivo e “non peccatore soggettivo”» sia «inedita» nel pensiero cattolico è affermazione che stupisce. Rusconi previene l'obiezione di «ingenuità» da parte dei «teologi professionali», ritenendo che essa non intacchi la sostanza della sua argomentazione.

Non sono sicuro di essere d'accordo. In fondo, egli argomenta spesso a partire da un'idea di cristianesimo altamente dottrinaria e paradossalmente analoga a quella dei cristiani più conservatori. Che il non teologo si cimenti con questi temi non solo è legittimo, ma auspicabile: farlo efficacemente, tuttavia, richiede un passo ulteriore nelle riflessioni cristiane degli ultimi secoli (e, per quanto riguarda il cattolicesimo romano, almeno in quelle successive al Vaticano II). Se un profano parlasse di matematica e considerasse le geometrie non euclidee un’innovazione singolare e anche un po' peregrina rispetto a quello che si è sempre saputo, difficilmente verrebbe apprezzato. Benché la cultura secolare possa considerarlo strano, anche la teologia ha un suo stato dell'arte.

 

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