È molto più di un “saggio irrisolto”, come lo qualifica lo stesso autore, questo libro di Walter Tocci (Roma. Non si piange su una città coloniale, goWare, 2015), che dopo l'esperienza di vicesindaco di Roma durante la Giunta Rutelli è, oggi, senatore della Repubblica. Se la finalità di un saggio è portare all’attenzione del pubblico un tema, farne un’analisi e ipotizzare possibili soluzioni, il lavoro di Tocci è, infatti, tutt’altro che irrisolto. Sia il problema, sia l’analisi, sia le soluzioni hanno, infatti, termini molto precisi.
Il problema è Roma o, meglio, il rapporto tra la politica – in particolare quella della sinistra – e la Capitale d’Italia. Una questione che le indagini giudiziarie più recenti – quella di Mafia Capitale per intenderci – ha fatto emergere, ma che accompagna, come un fantasma, la storia dei rapporti tra economia e politica della città da molto tempo. Ha una lunga durata, insomma, il lato oscuro del potere romano. E Tocci vuole mettervi un po’ di luce, usando una torcia che vada a scovare nodi e questioni, occasioni perse e possibilità aperte.
L’analisi è di quelle che non lasciano scampo. Nelle diverse denominazioni attraversate dal suo principale partito, la sinistra ha fatto una serie di errori imperdonabili per una forza politica. Dimentica dell’intuizione di Mommsen, secondo cui Roma può governarsi solo con una grande idea, non ha più pensato a una vera scelta strategica della città. Ha reciso i rapporti con i luoghi del pensiero. Ha dimenticato l’azione politica nelle periferie, creando veri e propri “buchi” nella sua presenza territoriale. In ultimo, non ha osato contrapporsi alla destra di Alemanno in maniera convincente. È da questo sfarinamento che discende la crisi della politica cittadina. Il suo non riuscire più a compattare l’amministrazione attorno a un preciso indirizzo; il suo ridursi a notabilato, a “partito in franchising”; il suo non essere più rappresentativa della città ma solo di suoi pezzi (e, paradossalmente, i più abbienti).
Ed è così che, in assenza di uno scheletro strategico, di una tensione progettuale, tutto è andato in pezzi. Il riformismo ha mostrato la sua “reversibilità” e, quindi, il suo intimo fallimento. E in questo andare in pezzi c’è stato di tutto: corruzione, inefficienza, fuga delle imprese, sviamento. Quest’ultima, tra molte, è la parola che mi è rimasta più impressa. Perché in essa c’è, appunto, lo smarrirsi di una città, il suo non tenere una barra che, invece, c’era. Anche sino a non troppo tempo fa. Ed è la barra impostata durante le giunte Rutelli e Veltroni. Stato regolatore, liberalizzazioni, New Public Management: le idee del tempo, insomma. E, come una nemesi, sono le realizzazioni amministrative di quell’epoca a mostrare, con volti deformati e grotteschi, la forza di questo sviamento. Si fa fatica a ritrovare l’originale linearità in soggetti come Zetema o Risorse per Roma, ad esempio. Troppa, infatti, la distanza che c’è, oramai, con la fisionomia immaginata al momento della loro creazione. Una vicenda che trova la sua più emblematica rappresentazione nella “mutazione genetica” della Cooperativa 29 giugno, che, nata come “occasione di riscatto sociale”, è diventata “occasione di malaffare”.
Le soluzioni? Qui la strada si biforca.
Il partito, innanzitutto, deve ridarsi una forma attorno a un’idea urbana moderna, riscoprire uno spazio di discussione, valorizzare i suoi quadri più dinamici, riannodare i rapporti con i centri di pensiero della città. Ricostruire, insomma, le condizioni affinché la politica riprenda il suo “colpo d’occhio”: quel “di più” che ne fa un mestiere per persone capaci di guardare “oltre” la circostanza.
C’è, poi, un lavoro da fare sulle politiche. Affrontando, innanzitutto, la questione istituzionale, dotando Roma di una organizzazione analoga a quella delle più moderne regioni metropolitane. Qui la posizione di Tocci si innerva nella discussione in corso, con una posizione ben precisa. Ed è quella di disegnare una regione che coincida con l’area metropolitana di Roma, dotandola di quei poteri, legislativi e amministrativi, necessari ad affrontare questioni che hanno oramai dimensione sovraurbana. Trasformare in parallelo i municipi in comuni metropolitani, rafforzandone funzioni e strumenti e, per il resto, lasciare che i “pezzi” di Lazio rimanenti siano coinvolti nel Risiko delle macroregioni che si avvia. Su un altro piano si deve ricominciare a concentrarsi con maniacalità sulle concrete policies. Il trasporto, innanzitutto, ritenuto “l’unica cura possibile per l’area metropolitana”. E, subito dopo, la formazione, riannodandosi, in qualche modo, all’intuizione di Quintino Sella che, pochi anni dopo l’Unità, aveva ipotizzato una Roma della ricerca, della formazione, del “cozzo delle idee”. Ecco, è proprio questa immagine – così antica e, allo stesso tempo, modernissima – a servire da guida.
Quando il mondo dice che l’innovazione nasce nella multidisciplinarietà, nell’incontro tra diverse culture, sta dicendo che è nel “cozzo delle idee” che c’è un nuovo modello di sviluppo. Null’altro. Forti del patrimonio cittadino in termini di università, centri di ricerca, istituzioni internazionali, va solo ripresa quella vocazione che, immaginata dallo statista di Biella, non fu mai effettivamente portata avanti. E declinarla con un utilizzo intelligente dei propri assets strategici, sostenendo, ad esempio, filiere di innovazione collegate alle sue aziende municipalizzate e facendo sì che Ama e Acea diventino vere e proprie piattaforme di nuova imprenditorialità.
Queste alcune delle idee e delle intuizioni che fanno del libro un volume di grande rilevanza, che tocca punti cruciali dell’attuale vicenda romana. Sarebbe però riduttivo vederlo solo così. A ben guardare, infatti, il volume di Tocci offre uno sguardo molto acuto e vero su temi più “grandi”. Penso al ruolo stesso della politica; alle dinamiche del suo rapporto con l’amministrazione; al raccordo tra mondo delle idee e loro attuazione amministrativa.
Qualcosa sul tono, infine. Tocci scrive un libro elegante che è un saggio ma, in qualche modo, si legge come un romanzo. A tratti un po’ amaro e cinico, ma di quelli che vanno messi tra i libri da leggere. Specie per chi, nonostante tutto, considera Roma una città con le potenzialità per essere una delle grandi metropoli del futuro. E le vede, non senza sconcerto, quotidianamente dilapidate.
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