Stanze. Come quella dell’Hotel Plaza in via del Corso a Roma, arredamento classico, un’eleganza senza tempo, quasi severa. Come piace a Enzo Tortora. Il giornalista consulta la sua agenda, appuntamento alle 16 in via Lucrezio Caro, sede della neonata Rete 4 di Mondadori della quale è direttore artistico, c’è da mettere nero su bianco la prossima puntata di Italia parla, «il talk show senza peli sulla lingua», come ama definirlo, serata al ristorante Al Grottino con la sorella Anna e poi a letto presto come sempre, domani c’è l’incontro con i dirigenti Rai in via Teulada, la firma del contratto per la settima stagione di Portobello. Venerdì 17 giugno, non si poteva scegliere una data migliore? Enzo non è superstizioso, ma i dubbi sul continuare o meno con la fortunata trasmissione li coltiva da tempo. Si è sempre sentito giornalista prima che presentatore, vorrebbe occuparsi d'altro, di storia, di letteratura, di politica come è nelle sue corde. Ma il mercatino del venerdì, con i suoi personaggi variopinti è una gallina dalle uova d’oro per mamma Rai, impossibile mollare adesso.
Giornalista. La verità è che scrive sempre meno, manca il tempo e la voglia di sopportare la continua battaglia con gli editori per imporre le proprie idee liberal-conservatrici in un’Italia manichea, colpita dagli scontri di piazza, dalla mafia, dal terrorismo rosso e nero. Si è pure sentito dare del fascista, roba da matti. Tanti nemici per Enzo Tortora, malelingue nei corridoi Rai, antipatie nelle sedi dei giornali, si parla male di lui perfino in luoghi lontanissimi dal suo mondo. In altri scenari e in altre stanze. Come l’ufficio della Procura penale di Napoli a Castel Capuano.
Nel capoluogo campano per anni si è concessa totale immunità a Raffaele Cutolo e alla Nuova camorra organizzata della quale è il boss indiscusso, si sono rispettati gli accordi tra malavita e potere politico, si sono supportati gli appetiti camorristi sugli appalti per la ricostruzione post terremoto e su ogni affare economicamente rilevante, si è chiuso un occhio sul centro di smistamento della droga proveniente dal Sud America.
«Quando sul territorio convivono Stato e mafia, o si fanno la guerra o si alleano», diceva Giovanni Falcone. Ora però gli equilibri stanno saltando. C’è nervosismo tra i magistrati, veleni, accuse reciproche, trasferimenti in sedi disagiate, carriere che rischiano, stop improvvisi. Sta cambiando il mondo.
"Quando sul territorio convivono Stato e mafia, o si fanno la guerra o si alleano" diceva Giovanni Falcone. Ora però gli equilibri stanno saltando. C’è nervosismo tra i magistrati, veleni, accuse reciproche e trasferimenti. Sta cambiando il mondoNuovi protagonisti irrompono sulla scena con tritolo e mitragliette, nei vicoli di Napoli c’è la sensazione palpabile che il boss di Ottaviano stia perdendo smalto e che altri vogliano mangiare nel suo piatto. L’inizio del declino ha una data precisa, 27 aprile 1981, e un luogo, Torre del Greco. Un commando Br capitanato da Giovanni Senzani, ambiguo terrorista sospettato di rapporti con i servizi segreti, rapisce Ciro Cirillo, democristiano, assessore ai Lavori pubblici della Campania, colui che ha in mano l’enorme flusso di denaro generato dalle scosse sismiche irpine. Possibile che Don Raffaele abbia permesso l’attacco frontale alla corrente di Antonio Gava, di cui Cirillo è braccio destro? O l’attacco arriva dal Sismi?
«L’unica volta che ho avuto contatti con i servizi segreti, tramite Francesco Pazienza, che in quella circostanza parlava a nome del segretario Dc Flaminio Piccoli, fu per chiedere il mio interessamento a far liberare Cirillo. Mi misero sul tavolo tanti di quei soldi. Io chiamai Vincenzo Casillo, il mio luogotenente e dopo otto giorni l’assessore era libero» racconterà il boss di Ottaviano.
La vicenda sarà oggetto di uno scoop di Marina Maresca editorialista de «l’Unità», di un dossieraggio confezionato dai servizi e finirà sulle prime pagine dei giornali. Generando inquietudine in altre stanze. Come la sede Dc in piazza del Gesù.
Cutolo non è più affidabile, si mormora, è bruciato davanti all’opinione pubblica che lo identifica come l’uomo degli accordi tra Camorra e Dc.
Il regolamento di conti tra i capi corrente campani, Vincenzo Scotti, Antonio Gava e Ciriaco De Mita è appena agli inizi. Don Raffaele deve sparire e con lui i segreti dei rapporti tra i vertici democristiani e la Camorra. «Se parlo io, viene giù tutta la Dc» dirà al maxiprocesso.
Sì, don Raffaele deve sparire. Morto ammazzato, come accadrà di lì a breve al suo vice Casillo, saltato in aria a due passi dalla caserma del Sismi di Roma oppure ai rigori del 41 bis, isolato dal mondo e soprattutto dalla stampa. Ma a questo ci devono pensare i giudici di Napoli.
Una bella gatta da pelare per gli uffici della Procura. Come fare per ribaltare un decennio di sentenze pilotate, di fascicoli scomparsi, di latitanze protette, di perizie psichiatriche addomesticate, di arresti domiciliari fittizi? Come colpire i cutoliani passando lo scettro ai nuovi re della malavita organizzata?
Ci vuole un processo, ci vuole un maxiprocesso. Ci vogliono dei pentiti. Da trovare in altre stanze.
Nelle sale colloqui di molte carceri italiani. Dove la vita non vale niente e basta un attimo per trovarsi dalla parte sbagliata. Le cronache giudiziarie registreranno un via vai di carabinieri mandati dalla Procura a scandagliare la peggior feccia criminale d’Italia. Porto Azzurro, Badu’e Carros, Asinara, Pianosa, Palliano. Uomini in fuga da se stessi e dall’Nco, l’organizzazione che hanno servito fino a pochi giorni prima. Gente pericolosa al soldo di chiunque. Come Pasquale Barra, ò animale, il killer delle carceri che per conto di Don Raffaele ha sventrato Francis Turatello, azzannandone le viscere ancora calde per poi sputarle in segno di disprezzo. Come Michelangelo D’Agostino, sette omicidi sulle spalle che anni dopo racconterà, «Ho firmato senza leggere tutti i verbali che mi mettevano davanti, non so dunque se le mie dichiarazioni sono vere o false». Oppure Pasquale d’Amico, famoso per aver sgozzato e impalato un detenuto nel carcere di Poggioreale, pentito dieci minuti dopo il suo arresto.
Sono in tanti a voler salire sulla scialuppa di salvataggio lanciata dalla Procura napoletana. Al corteo si accodano guitti del palcoscenico, psicopatici aggressivi, millantatori di professione. Tutti con le loro confidenze da vendere ai giudici. Giovanni Pandico, ò pazzo, Gianni Melluso, detto «il bello», che millanta una vicinanza con il mondo dello spettacolo, l’imbrattatele Giuseppe Margutti. Alla fine saranno diciotto le gole profonde che conoscerebbero l’elenco degli affiliati all’Nco. Un mercato delle vacche. Immunità in cambio di nomi, di storie per quanto inverosimili esse siano.
Così si arriva presto in un’altra stanza. Una cella di Regina Coeli, dove uno stralunato Enzo Tortora viene portato all’alba del 17 giugno 1983. L’inizio di una vicenda surreale per la quale ogni aggettivo è stato usato. Grottesca, kafkiana, soprattutto ignobile.
Enzo, affiliato alla Camorra, sarebbe il terminale dello spaccio di cocaina nel bel mondo delle tv e dei vip milanesi. Una follia per chi cerca riscontri oggettiviUn capo d’imputazione lunare per chi conosce la storia di Tortora, Enzo, affiliato alla Camorra, sarebbe il terminale dello spaccio di cocaina nel bel mondo delle tv e dei vip milanesi. Una follia per chi cerca riscontri oggettivi. Ma chi li cerca? Non certo i giudici di Napoli e nemmeno la stampa. Dalle redazioni dei giornali parte un vero linciaggio verso il collega caduto in disgrazia. Si regolano i conti con il suo essere fuori dal coro.
Un’ondata giustizialista, disgustosa e assassina premonitrice dei tristi tempi che verranno. Pochi manterranno la schiena diritta nel riportare all’opinione pubblica «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese», come lo definì Giorgio Bocca.
Con osceni editoriali l’intellighenzia prende posizione. E sono sputi e offese per il galantuomo Tortora. Una macchina del fango vergognosa che lo segnerà più del carcere.
Pochi coloro che gli tenderanno la mano. Tra questi Marco Pannella e il Partito radicale che porterà Tortora al Parlamento di Strasburgo. Tortora rinuncerà all’immunità, sarà condannato, assolto, tornerà in tv. Vincerà la battaglia, ma perderà la guerra. Non farà in tempo a vedere una «giustizia giusta», come amava dire. Morirà per un tumore il 18 maggio 1988.
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