Capita di trovare, tra i post delle bacheche social di alcuni veneziani, immagini di bolli di sezione datati “1 dicembre 2019”. Sono i bolli che attestano la partecipazione al voto al referendum – il quinto – sulla separazione di Venezia da Mestre e si trasformano quasi nella rivendicazione identitaria di pochi resistenti. Ha in effetti prevalso l’astensione: solo un veneziano su quattro si è recato alle urne. Un risultato che non deve sorprendere, dal momento che una sorta di crociata astensionista ha attraversato l’intero arco politico, unendo idealmente tutti i sindaci dell’ultimo quarto di secolo. Per l’astensione era, infatti, l’attuale sindaco Luigi Brugnaro, eletto con una civica personale sostenuta dal centrodestra; per l’astensione era il suo tre volte predecessore Massimo Cacciari, che senza mezzi termini ha definito dei “poveretti” coloro che si sarebbero recati alle urne. E così pure Giorgio Orsoni, l’avvocato cattolico che divenne sindaco di centrosinistra prima di finire nel ciclone delle indagini sui finanziamenti del Mose; e infine per l’astensione era anche l’ex sindaco Paolo Costa, già ministro del centrosinistra durante la cui amministrazione le Grandi navi hanno trovato spazio in laguna. In sostanza, come se un "partito dei sindaci" della città avesse unitariamente suggerito un sabotaggio passivo del referendum, dopo aver cercato di ostacolarlo con mezzi legali e morali.
Parallelamente, ampi settori del tessuto civico della città e una parte rilevante delle sue categorie – tra tutte la Cgia, vivace associazione degli artigiani – si sono espressi per la partecipazione al referendum e in buona parte a favore del “sì”. Finanche la sezione locale di Italia Nostra era uscita dal suo proverbiale riserbo elettorale per prendere posizione a favore del quesito.
Storicamente la sinistra ha fatto dell’unione policentrica di Venezia, Mestre e Marghera un suo cavallo di battaglia, con l’idea che avrebbe così potuto mantenere al suo interno funzioni direzionali e operaie che tutelassero la sua anima insulare dalla disneyficazione. Ma la tenuta di questo disegno unitario ha perso molta presa, anche a sinistra, negli ultimi decenni. In realtà, la città policentrica ha oggettivamente fatto da volano alla monoeconomia turistica, offrendo ai complessi alberghieri, agli interessi portuali, alle lobby dell’aeroporto sindaci per “l’unità policentrica” che ne hanno depotenziato le risposte sociali, permettendo lo spopolamento del centro insulare. Venezia ha perso in cinquant’anni due terzi dei suoi residenti, mentre Mestre, che solo un secolo fa contava un terzo degli abitanti della prima, oggi ne ha tre volte tanti.
Tutti quelli che furono i tasselli retorici a supporto della città policentrica, ossia la funzione direzionale di Mestre e la tenuta operaia di Marghera, hanno ceduto dinnanzi alla ridefinizione di queste stesse aree all’interno della città turistica, aree che sono divenute banalmente il retrobottega d’una città-museo di sé medesima. Tutte le funzioni del territorio si sono così calate sulle necessità di una economia totalitaria. Mestre è divenuta il dormitorio della zona turistica e Marghera il suo serbatoio di forza lavoro. Ed è per queste ragioni sostanziali che il progetto "unionista" della città policentrica ha perso negli anni una parte importante del suo consenso "a sinistra", smarrendo la sua credibilità di antidoto alla deriva. È così che tanto l’ex candidato sindaco Felice Casson quanto l’anima del gruppo 25 aprile Marco Gasparinetti hanno sposato la causa della separazione.
Ma alle tradizionali ragioni identitarie, inevitabilmente centrate sul ruolo storico della città insulare e forgiate intorno al suo mito millenario, sono andati sommandosi cleavages di tutt’altra natura, spesso legati al presunto tradimento di un patto sociale di rappresentanza. Aboliti infatti i Consigli di quartiere che erano stati accorpati negli anni Novanta, e introiettate nelle competenze comunali le funzioni delegate alle Municipalità da parte della giunta Brugnaro nel 2016, ad oggi la dimensione di potere più prossima al corpo elettorale si estende su un Comune di 414 chilometri quadrati. Si tratta di un’area oggettivamente informe, caratterizzata da dialetti, percezioni, problematiche, ambienti assolutamente non omogenei: Mestre, Marghera e Venezia hanno oramai vite separate, quotidianità autonome, rapporti familiari che tendono alla distanza. Una volta saltata la funzione istituzionale di mediazione, ha sostenuto chi ha voluto ora la separazione, è opportuno considerare che un comune di 80.000 abitanti ha una dimensione di prossimità della rappresentanza che un comune da 259.939 non può avere. L’idea è che questo territorio plurimo e privo di dialogo elegga oramai rappresentanti che possono permettersi di ignorare sia le tensioni socioambientali intorno alle Grandi navi sia quelle della segregazione securitaria di Mestre. La stessa tara d’origine del comune unitario, ossia la sua origine fascista (1923/1926), ha costituito un argomento che ha legittimato a sinistra un riposizionamento favorevole a una separazione con temperie municipalista. Un Comune così poliforme, si sostiene, ha un sindaco prefettizio anziché un Consiglio di prossimità.
Questa faglia a sinistra e il palesarsi di un “blocco astensionista d’apparato” sono gli elementi principali lasciati sul terreno da questa consultazione. L’analisi dei risultati elettorali non lascia molti dubbi: la vittoria astensionista è stata ampia. L’inondazione del 12 novembre ha forse mostrato la fragilità del territorio, un inatteso puntello alla percezione di una difesa serrata e unitaria. L’idea che un Comune ampio abbia intrinsecamente più potere si è fatta largo contro la frammentazione.
La consultazione ha avuto però dei precedenti, e su questi vale la pena di proporre un’ultima riflessione. Nelle quattro passate consultazioni, il Comune appariva molto più unitario, il suo tessuto percettivo più uniforme. Il “no” alla separazione allora era prevalso ovunque e il tasso di partecipazione al voto non si era differenziato. I risultati elettorali di oggi, invece, ci dicono che queste tre città in crisi di rappresentanza appaiono molto più distanti tra loro. Il tasso di partecipazione del centro insulare è doppio rispetto alla terraferma, il “no” si è attestato solo nello zoccolo operaio di Marghera, mentre un astensionismo tattico ha prevalso a Mestre. Nel centro storico della città insulare, invece, sono molti gli elettori che, al netto dell’astensionismo strutturale, hanno optato per la separazione. Così ne emerge una faglia che ancora deve trovare risposte.
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