In un quinquennio in cui il mondo è radicalmente cambiato, l’Unione europea ha fatto altrettanto, ma non tutti ce ne siamo accorti. È la tesi di fondo del libro appena uscito di Elisabetta Gualmini (Mamma Europa. Una nuova Unione dopo crisi e scandali, Il Mulino, 2023), docente di Scienze politiche all’Università di Bologna, nonché europarlamentare ed ex vicepresidente della regione Emilia-Romagna. La confluenza delle tre esperienze è presupposto del libro, quasi un diario del suo mandato europeo dall’elezione nel 2019: è la testimonianza in presa diretta della studiosa che, reduce da un’importante esperienza amministrativa sul territorio, osserva e racconta dall’interno le istituzioni di Bruxelles in una fase di enormi sommovimenti.

La storia raccontata da Gualmini è quella di un salto di paradigma epocale: dall’Europa arcigna e matrigna della troika e dell’austerità, dei commissariamenti e dei vincoli di bilancio, verso un’Europa più solidale e sociale, ambiziosa nelle riforme e aperta ai nuovi diritti. L’attuale legislatura europea non era iniziata sotto i migliori auspici: nel maggio 2019 soffiava forte il vento dei sovranismi e delle rivendicazioni populiste, e il risultato elettorale rispecchiava il clima di sfiducia e di scontento rispetto alle prospettive dell’integrazione comunitaria. È l’anno del trionfo di Salvini che, come ministro dell’Interno del governo gialloverde, sembrava destinato a un’ascesa inesorabile, interrotta dopo soli pochi mesi con la pazza crisi del Papeete.

Nella ricostruzione di Gualmini, la temperie sovranista faceva seguito a un decennio di profonda distanza delle istituzioni europee dal sentire comune, avente come detonatore la crisi economico-finanziaria del 2008. Nello sconcerto generale successivo al crollo di Lehman Brothers, l’Unione europea sembrava capace di suonare un solo spartito, quello dell’austerità di bilancio. Il commissariamento della Grecia nel 2009 e, pochi anni dopo, il governo tecnico di Mario Monti in Italia sono i due momenti apicali di questa tendenza.

Sono gli ultimi colpi di coda del “Washington Consensus”, la posizione di politica economica secondo cui il compito fondamentale delle istituzioni è quello di attuare riforme orientate verso la riduzione della spesa pubblica, la liberalizzazione dei mercati, la privatizzazione delle public utilities. Si tratta, in breve, della posizione più dogmatica del cosiddetto neoliberalismo, l’inclinazione verso il radicale laissez faire che ha dominato nelle istituzioni internazionali dopo il fallimento dell’esperimento comunista.

Lungi dall’alleviare le contraddizioni esplose nel 2008, il rigorismo europeo ha contribuito ad aggravarle, gettando la Grecia in un lungo decennio di prostrazione economica, consegnando l’Italia alle forze antipolitiche e populiste, diffondendo in tutto il continente un senso di profonda diffidenza rispetto a un’Europa tecnocratica attenta solo alla fredda contabilità del deficit.

Una tappa fondamentale dell’evoluzione dell’euroscetticismo è stata naturalmente la Brexit: per gestire un abbandono considerato fino ad allora inconcepibile, allo shock generale successivo al referendum del 2016 sono seguiti lunghi anni di dure trattative. Nella narrazione di Gualmini, la Brexit ha avuto tuttavia un effetto paradossale: invece di galvanizzare le pulsioni nazionaliste dei partiti euroscettici, le enormi difficoltà affrontate dopo il referendum dal Regno Unito hanno portato ad ammorbidirne le posizioni critiche, con uno slittamento progressivo dal “subito fuori” al “cambiamo l’Europa, però dall’interno”.

Come ricorda l’autrice, lo slancio iconoclastico che animava i partiti britannici euroscettici si è fortemente ridimensionato; le frange più radicali del Partito conservatore hanno gettato i Tories nella crisi più grave della loro storia recente; e il Regno Unito, che era potenza culturalmente egemone e centro finanziario del continente, è oggi impantanato in una grave stagnazione politica ed economica, come mostrano plasticamente i governi instabili, le colossali file doganali, le periodiche carenze di materie prime nei supermercati d’Oltremanica.

Il singolare destino dell’integrazione europea è che questa sembra trarre linfa vitale dalle peggiori crisi, come già vaticinava Jean Monnet. Come la spinta propulsiva iniziale si ebbe dopo la devastazione della Seconda guerra mondiale, il grande momento di svolta si è registrato con la pandemia del 2020. Le prime reazioni sono state in verità piuttosto deludenti, esemplificate dalle dichiarazioni di Christine Lagarde secondo cui “non spetta alla Bce ridurre gli spread”, mostrando nel momento di massimo panico da contagio l’abissale distanza rispetto ai cittadini. Allo stesso modo, i governi nazionali hanno inizialmente sostenuto una linea fortemente sciovinista, chiudendo le frontiere e accaparrandosi risorse sanitarie senza un coordinamento generale.

È qui che è emersa la vitalità dell’Unione europea come istituzione capace di imparare dai propri errori: l’autrice racconta in prima persona la grande transizione digitale conseguente alla pandemia, quando gli incontri parlamentari furono trasferiti in modalità a distanza e vennero deliberati sussidi senza precedenti per le nazioni colpite, tra cui l’Italia in primis. È stata attuata in poche settimane un’autentica svolta neokeynesiana delle istituzioni comunitarie, che si è concretizzata nel “Next Generation Eu”, un nuovo piano Marshall che ha cristallizzato un inedito accordo tra le “formiche” rigoriste del Nord Europa e le “cicale” spendaccione dei Paesi mediterranei.

Il Next Generation Eu è autenticamente epocale sia negli importi sia negli intenti, visto che definisce la più ambiziosa visione di sviluppo economico del Continente dal dopoguerra

Il Next Generation Eu è autenticamente epocale sia negli importi sia negli intenti, visto che definisce la più ambiziosa visione di sviluppo economico del Continente dal dopoguerra, da articolarsi nei tre pilastri della transizione ecologica, di quella digitale e, soprattutto, dell’equità sociale. All’allocazione delle risorse è sottesa una forte carica politica e valoriale, incentrata su uno sviluppo sostenibile, tecnologicamente competitivo e teso a ridurre le imponenti diseguaglianze sociali esplose negli ultimi decenni, che sono all’origine delle fibrillazioni del progetto europeo. Nel racconto – e nell’auspicio – di Gualmini, è l’occasione per una nuova “agenda sociale” comunitaria, destinata a cambiare profondamente il volto delle istituzioni di Bruxelles. Il nuovo approccio in politica economica sta infatti incoraggiando una serie di iniziative con una forte impronta sociale. Tra queste, l’autrice si sofferma in particolare sulla direttiva, da lei seguita in prima persona come relatrice, per la tutela dei lavoratori della gig economy, rimasti orfani di tutti quei diritti spettanti alla forza lavoro più garantita e tutelata. Il ritardo delle istituzioni, dei partiti e dei sindacati nel tutelare milioni di giovani lavoratori sottoposti al dominio degli algoritmi di colossi come Amazon, Deliveroo e Just Eat è tra le espressioni più evidenti dell’arretratezza di tanta parte della classe dirigente progressista nell’interpretare i mutamenti dell’età digitale.

Inoltre, mentre l’Europa fronteggiava le conseguenze della pandemia, una nuova minaccia esterna è intervenuta a modificarne radicalmente l’assetto istituzionale: l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. Di fronte alla più grave minaccia militare dei confini europei degli ultimi decenni, la reazione dell’Unione è stata più rapida ed energica di quanto lo stesso invasore potesse immaginare. La condanna unanime, le sanzioni economiche, la ricerca di forme alternative di approvvigionamento energetico, il rinnovato slancio per una difesa comune: sono le scelte con cui le istituzioni europee hanno contribuito in maniera decisiva a puntellare la strenua resistenza del popolo ucraino, determinando il fallimento della guerra lampo auspicata da Putin.

Se due “cigni neri” come la pandemia e l’aggressione russa hanno incentivato la centralizzazione di tanti processi decisionali, promuovendo una nuova gestione comunitaria delle risorse economiche, sanitarie e militari, un terzo macro-fenomeno di più lungo periodo si presenta oggi come l’autentico turning point che può determinare il successo oppure il declino del progetto di integrazione europea: la gestione dei flussi migratori, ad oggi “il grande fallimento dell’Unione Europea” secondo l’autrice.

La drammatica incapacità delle istituzioni comunitarie di affrontare pragmaticamente l’immigrazione, con il grave concorso di colpa di governi nazionali che fanno della caccia allo straniero la loro bandiera ideologica, emerge con enorme evidenza nella rotta mediterranea, cimitero di speranza per tutte quelle persone che, attratte dallo splendore del continente dei diritti umani, sono disposte a rischiare tutto per fuggire da condizioni disumane. L’autrice testimonia la missione parlamentare di visita dei campi profughi a cavallo tra i confini italiani e la penisola balcanica, dove decine di migliaia di disperati scommettono le loro vite sul “grande gioco” che ha come jackpot l’ingresso in Europa. La tragedia umanitaria che vi si consuma quotidianamente è un grande monito per un processo di integrazione che, se vuole superare i particolarismi nazionali, deve necessariamente fare i conti con le richieste d’aiuto degli ultimi del mondo che premono ai confini.

La drammatica incapacità delle istituzioni comunitarie di affrontare pragmaticamente l’immigrazione emerge con enorme evidenza nella rotta mediterranea

L’Unione europea raccontata nel libro è un’istituzione a un punto di svolta, che per la prima volta dopo decenni intravede la possibilità di darsi un’identità comune e condivisa. Le sfide affrontate nell’ultimo quinquennio sembrano mostrare la potenziale capacità di superare le proverbiali lentezze, derivanti dalle lunghe procedure decisionali e da vincoli obsoleti come il principio dell’unanimità, del quale Gualmini auspica il superamento come già, tra gli altri, Mario Draghi e David Sassoli, al cui ruolo come presidente del Parlamento europeo è dedicata una vibrante conclusione.

Un’agenda equa, inclusiva, sostenibile e digitale è la via maestra verso un’Europa “madre” e non più “matrigna”. Le sfide, dettate in particolare dai rapporti con l’esterno, restano imponenti; tuttavia, tra tanti regimi autoritari in rapida ascesa e un American Dream sempre più minato da tensioni razziali e diseguaglianze sociali, il sogno europeo resta l’unica utopia democratica e liberale in cui, con sano realismo, vale oggi la pena sperare.