Questo articolo fa parte dello speciale Quirinale 2022
In questo finale di legislatura si torna a parlare di riforma della legge elettorale, in uno scorcio segnato dalla fine del settennato e dalle varie opinioni sul ruolo assunto dal presidente della Repubblica. Può essere interessante allora ricordare quel che scrisse il presidente Einaudi a De Gasperi in una lettera del 27 agosto 1952, proprio nei giorni in cui si stava definendo la proposta di riforma della legge elettorale della Camera. È un documento illuminante sulla fase iniziale di quel rapporto capo dello Stato-presidente del Consiglio che avrà molteplici varianti negli anni della Repubblica.
Nella lettera, innanzitutto, Einaudi mostra di condividere la convinzione che De Gasperi si era formato: le elezioni del 1953 non avrebbero dato risultati simili a quelli del ’48. Da ciò, per Einaudi, la probabilità di un governo debole per il quale sarebbe «assai difficile se non impossibile il legiferare, salvo nelle cose di poco conto e disagevole l'amministrare». Einaudi continua vedendo, nella possibile debolezza dei governi, «l’effetto di promuovere, per concorrenza demagogica, l’incremento delle spese superflue, incremento al quale un governo, minacciato ad ogni istante da voti di sfiducia, malamente potrebbe opporsi».
Secondo Einaudi «il governo che sale al potere dopo una elezione generale non ha altra speranza di vedersi riconfermato il mandato nella futura prova elettorale, se non si è procacciato subito il massimo di impopolarità ricorrendo a provvedimenti duri, ma capaci di fruttare alla scadenza dei cinque anni».
Einaudi osserva che «il sistema non è per sé stesso in tutto responsabile dei pericoli previsti sopra». La questione cui la legislazione elettorale deve provvedere sta innanzitutto nella qualità della rappresentanza parlamentare. Su questo metro Einaudi si spinge a misurare pregi e difetti dei vari sistemi. Personalmente preferisce il sistema uninominale (segnatamente il collegio uninominale con voto alternativo) ma non esclude la possibilità di introdurre correttivi al proporzionale «per migliorare – appunto – la composizione della futura Camera».
«Qualcosa può farsi» scrive, ad esempio ridurre «la spropositata ampiezza delle attuali circoscrizioni» che «vietando ogni rapporto fra elettori ed eletti, non può non avere abbassato il livello medio degli eletti».
«Limitare ad uno solo i voti di preferenza» è l’altro correttivo proposto. Secondo Einaudi «in luogo della lotta feroce fra i candidati per ottenere preferenze in una vasta circoscrizione, i candidati, se siano scelti dai partiti con riguardo alle situazioni locali, sarebbero spinti a coltivare ciascuno il proprio giardino. Non è certo che sempre si ottenga lo scopo; ma l’avvicinamento al vantaggio principale del collegio uninominale, che è la conoscenza reciproca fra eletti ed elettori e il maggior peso di questi nella scelta degli eletti, non sarebbe così inverosimile come oggi è, dato il metodo delle parecchie preferenze».
Per Einaudi la proporzionale con premio è praticabile. La sola soluzione che gli pare corretta è quella di un sistema in cui il premio scatta in favore della coalizione dei partiti che abbia «ottenuto nella nazione il 50% più uno dei voti validi». Questa può essere considerata «una variante della proporzionale pura». Infatti «se il 50% e più si raggiunge, bene: si avrà un Governo capace di governare. Se no, si ricadrà nella proporzionale pura, con tutti i suoi rischi, ma non con il rischio massimo del salto nel buio».
Per Einaudi la proporzionale con premio è praticabile. La sola soluzione che gli pare corretta è quella di un sistema in cui il premio scatta in favore della coalizione dei partiti che abbia “ottenuto nella nazione il 50% più uno dei voti validi”
Se l’obiettivo di De Gasperi era avere regole elettorali capaci di garantire governi stabili, le indicazioni del presidente erano chiare: sì a un sistema che attribuisse un premio di governabilità, per ottenere il quale serviva però un risultato elettorale che lo stesso Einaudi riteneva difficile da conseguire, «non essendo grande – scrive con realistica previsione – la probabilità che un gruppo qualsiasi raggiunga nel 1953 il 50% più uno dei voti validi».
Da escludersi invece «il sistema del premio nazionale al gruppo che ha ottenuto il maggior numero relativo di voti validi». Questo «fa correre un gravissimo rischio. Si gioca il diritto di governare il Paese su un banco d’azzardo. È estremamente difficile prevedere il clima psicologico del Paese nei mesi da aprile a giugno del 1953. Quale la risposta degli elettori ai tenitori del banco? È il salto nel buio». Meglio la proporzionale pura: «Governo difficile sì, tormentato sì, ma non abbandonato alla sorte di un gioco d'azzardo».
Ben tre volte nella lettera Einaudi evoca il rischio del «salto nel buio»; due volte, sempre con riferimento al sistema proporzionale con premio alla coalizione che ottenga la maggioranza relativa, parla di sistema che potrebbe affidare le sorti del Paese alla fortuna di «un banco d'azzardo».
Einaudi qualifica questa lettera come «riflessioni personali» delle quali – prosegue rivolgendosi a De Gasperi – «potrai fare il conto che le circostanze e gli imponderabili consentiranno». Ma è chiaro come la questione della soglia per ottenere il premio rappresenta per il presidente una condizione insuperabile.
Se ritiene difficile dimostrare che una qualsiasi cifra inferiore al 50% più uno abbia carattere razionale, questo ragionamento non è invece applicabile al sistema dei collegi uninominali ove «si fa, correttamente, affidamento al principio dei grandi numeri. In 600 collegi ora vince una, ora vince l’altra maggioranza relativa; e gli errori si compensano. Perciò non si pone alcun limite, in basso, al peso del "relativo"».
Einaudi nelle sue riflessioni tratta anche il tema della entità del premio, collegandolo ad un preciso problema di sostenibilità costituzionale, indicando come soglia ragionevole quella del 60%: «Un premio che recasse il numero dei deputati del gruppo al 60%, non toccherebbe affatto i diritti della minoranza e consentirebbe la formazione di un governo capace di governare; il che è scopo principalissimo dell’appello periodico agli elettori».
Un premio più elevato «darebbe luogo ad una duplice critica: 1) di diminuire senza necessità obbiettiva il peso delle minoranze. Queste, se superano complessivamente il terzo degli eletti, non hanno diritto di impedire al governo di governare, ma hanno diritto di impedire la approvazione di leggi per le quali si riecheggia una maggioranza speciale, che nella nostra Costituzione, in dati casi, può andare ai due terzi degli eletti; 2) di favorire la creazione, dentro il gruppo di maggioranza, di una maggioranza nella Camera di un solo partito, cosa che non senza fondamento molti reputano pericolosa».
Nel disegno di legge sottoposto dal ministro Scelba a Einaudi a fine ottobre, si stabiliva, per il partito o coalizione di partiti collegati che raggiungesse il 50,01 voti validi, un premio di maggioranza pari al 65%: 385 seggi alla coalizione vincente, 205 alle minoranze.
Einaudi ne autorizzò la presentazione alle Camere.
La linea rossa (quella sulla soglia di accesso al premio) era rispettata. Solo in parte però si teneva conto delle osservazioni del presidente sulla entità del premio che, se (di poco) non attribuiva alla coalizione vincente i due terzi dei seggi, superava comunque quella soglia (del 60%) consigliata da Einaudi.
Nel corso dell’esame parlamentare il numero dei seggi da attribuire alla coalizione vincente peraltro era stato ulteriormente ridotto (da 385 a 380) rispetto al disegno di legge dopo una complessa trattativa tra i quattro partiti centristi. L’aspirazione della Democrazia cristiana di vedersi garantita, per effetto del premio, quasi la maggioranza assoluta da un lato, e l’aspirazione contraria dei minori, resa però più complessa dalla opposta contingente esigenza dei socialdemocratici (di ottenere un numero di seggi che permettesse loro di avere in Parlamento una rappresentanza numericamente più consistente dei socialisti); rese di fatto impossibile nel corso dei lavori parlamentari modificare ulteriormente l’entità del premio su cui i quattro partiti si erano messi d’accordo. E proprio questa entità fu la motivazione essenziale che condusse molti esponenti dei partiti minori a contrastare la riforma prima in Parlamento, e poi nelle elezioni del giugno del 1953. I voti ottenuti dalle liste presentate dai «laici» dissidenti (nel complesso circa mezzo milione) non bastarono per ottenere seggi, ma furono determinanti. Il premio non scattò infatti, per soli cinquantasettemila voti.
Era quel che aveva previsto Einaudi nelle sue osservazioni dell’agosto del 1952.
Tornando sulla questione (in un testo datato aprile 1953, immediatamente successivo alla promulgazione della legge e pubblicato nel famoso volume Lo Scrittoio del presidente) Einaudi precisa che il premio «dovrebbe all’incirca consentire al gruppo di maggioranza di disporre del 60% dei deputati alla Camera; tenendosi il più possibile lontano dai due terzi del numero totale dei componenti della Camera dei deputati. Non si sa quale potrebbe essere in materia l’opinione della Corte costituzionale se questa esistesse e se una sua decisione in merito fosse sollecitata; pare certo che un premio così fatto contraddirebbe allo spirito della Costituzione».
Il sistema elettorale poteva essere sì corretto con l’introduzione di un premio nazionale per "consentire la formazione di un governo capace di governare", ma nel rispetto di condizioni giudicate essenziali dal presidente
In conclusione, quelli che Einaudi rivolgeva a De Gasperi non erano semplici consigli. Il sistema elettorale poteva essere sì corretto con l’introduzione di un premio nazionale per «consentire la formazione di un governo capace di governare» (per «creare una maggioranza politica governante» dirà la Corte Costituzionale nel 2017), ma nel rispetto di condizioni giudicate essenziali dal presidente: che la soglia di accesso al premio fosse pari alla maggioranza assoluta dei voti validi e che l’entità del premio stesso non fosse tale da permettere alla coalizione vincente di raggiungere il quorum di due terzi previsto per la revisione costituzionale.
Condizioni che il governo rispettò nel disegno di legge presentato al Parlamento. Salvo un punto. Sull’entità del premio la «linea rossa» del 60% suggerita da Einaudi fu oltrepassata; anche se non si violò la soglia giudicata incostituzionale dal presidente.
Fu per De Gasperi un errore fatale, che ridusse il consenso parlamentare e poi, in modo decisivo, quello popolare sulla riforma.
Mancarono anche alla legge, che si chiamerà «truffa» i pochi voti necessari, ai fini del premio, per realizzare la maggioranza assoluta dei voti validi: condizione richiesta con nettezza da Einaudi.
Grazie all’intervento puntuale e argomentato del presidente della Repubblica la proposta di revisione del sistema elettorale aveva dunque sin dall’origine una sua fondata coerenza con la disciplina costituzionale; che stava anche nei limiti espressi alla sua applicabilità.
Una coerenza sicuramente maggiore rispetto alla legge elettorale del 2005, censurata dalla Corte nel 2014, dopo essere stata applicata ben tre volte, con argomenti per molti aspetti simili a quelli utilizzati da Einaudi: dai rilievi sull’ampiezza delle circoscrizioni, alla censura del premio «foriero – secondo la Corte – di una eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa, in quanto consente ad una lista che abbia ottenuto un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi».
Un documento, dunque, con insegnamenti ancora attuali: sia sui rapporti tra capo dello Stato e governo, sia sul sistema elettorale.
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