Questo articolo fa parte dello speciale Quirinale 2022
La procedura per eleggere il nuovo presidente della Repubblica si chiude con un esito che per certi versi rassicura, ma non induce all’ottimismo. La rielezione di Sergio Mattarella come «magistrato di persuasione e di influenza» (per riprendere la bella espressione usata alla Costituente) è senza dubbio un contributo alla stabilità del nostro sistema politico nel breve periodo, e offre le migliori garanzie per una presidenza sensibile sia al dettato costituzionale sia alle esigenze di governabilità del Paese. Se oltre alla presenza di Mattarella al Quirinale fosse confermata in maniera stabile quella di Mario Draghi a Palazzo Chigi questo sarebbe nell’immediato un altro dato positivo. Nel contesto dell’attuale costituzione è senza dubbio come presidente del Consiglio che Draghi può mettere a frutto nel modo migliore i propri talenti. Le due questioni cruciali del Pnrr e della revisione delle regole di bilancio in Europa lo hanno visto fino a oggi protagonista, e tutto sommato è difficile immaginare un’altra persona che sia in grado di raccogliere il testimone garantendo la stessa efficacia.
Come lo stesso Mattarella aveva ricordato, la possibilità di una secondo mandato può modificare la prospettiva del presidente in carica, e influenzarne l’operato nel senso che ritiene più favorevole a una rielezione
Tutto bene dunque? Purtroppo no. Nei mesi scorsi Sergio Mattarella, un presidente che si è formato nel «mondo di ieri» della c.d. Prima repubblica, aveva fatto capire di non guardare con favore all’ipotesi di una riconferma. Ai comprensibili motivi personali – quella del capo dello Stato è una responsabilità pesante, specie in momenti difficili come quelli che abbiamo vissuto negli ultimi due anni – si aggiungevano ben fondate perplessità di natura costituzionale. Esposte dal presidente con il consueto garbo, ma anche con fermezza, in diverse occasioni. La questione di fondo è che la legge fondamentale della Repubblica stabilisce (art. 85) che il presidente rimane in carica per sette anni, un tempo relativamente lungo che mal si adatta all’ipotesi di una rielezione. Come lo stesso Mattarella aveva ricordato, nel corso di una commemorazione di Antonio Segni, la possibilità di una secondo mandato può modificare la prospettiva del presidente in carica, e influenzarne l’operato nel senso che ritiene più favorevole a una rielezione. Un cambiamento degli incentivi che potrebbe avere effetti negativi per un ruolo di garanzia e di equilibrio come quello del presidente della Repubblica nel nostro ordinamento. Queste considerazioni di Mattarella avevano trovato riscontro anche in una proposta di modifica del dettato costituzionale presentata da alcuni parlamentari del Pd poche settimane fa. In retrospettiva appare significativo di un clima politico insalubre il fatto che questa proposta, che aveva una limpida giustificazione costituzionale, e veniva incontro a un auspicio dello stesso presidente, fosse interpretata dalla stampa come un modo per convincere Mattarella ad accettare la possibilità di una rielezione. Un’ipotesi che aveva provocato comprensibile imbarazzo e motivato l’esigenza di una smentita, sia pure ufficiosa, da parte di ambienti vicini al Quirinale.
Se sette anni non sono troppi, dobbiamo concludere che quattordici sono accettabili? Questo non è un nodo che si può affidare soltanto alla sensibilità personale di chi esercita la funzione presidenziale
Sta di fatto che la prassi costituzionale, perché di questo si tratta, in quanto il testo della Costituzione non esclude esplicitamente la possibilità di un secondo mandato, era già stata messa da parte quando Giorgio Napolitano è stato eletto per la seconda volta. Lo stesso Mattarella, suggerendo una modifica del testo costituzionale che escludesse esplicitamente un secondo mandato, aveva fatto capire di considerare quell’episodio come un’eccezione. Chiaro che a questo punto, dopo la rielezione di Mattarella, è la stessa forza normativa della prassi a essere messa in discussione. Anche se il presidente dovesse dimettersi prima della scadenza del settennato, come fece Napolitano, è difficile immaginare che la questione della durata ottimale del mandato possa essere elusa. Se sette anni non sono troppi, dobbiamo concludere che quattordici sono accettabili? Questo non è un nodo che si può affidare soltanto alla sensibilità personale di chi esercita la funzione presidenziale. Pur considerando le differenze tra i due sistemi istituzionali e politici, vale, come esempio di cui tener conto, la modifica della durata del mandato presidenziale introdotta in Francia durante la presidenza Chirac.
In una situazione come quella attuale sarebbe tuttavia illusorio immaginare che un Parlamento che non è riuscito a trovare un consenso su un candidato, o su una candidata, diverso dal presidente attualmente in carica, e che ha in conseguenza dovuto chiedere a quest’ultimo un sacrificio personale mettendosi nuovamente a servizio della Repubblica, possa intraprendere un percorso lungo e spinoso come quello della revisione costituzionale con qualche speranza di successo. Ancora meno realistico, e politicamente inopportuno, sarebbe approfittare delle circostanze peculiari che hanno condotto al secondo mandato di Mattarella per lanciare ipotesi di modifica del metodo di elezione del capo dello Stato. Anche se la riforma fosse introdotta lasciando invariati i poteri del presidente, l’architettura costituzionale ne risulterebbe compromessa. Inoltre la prospettiva di una lunga e accesa campagna presidenziale in un paese che da anni fatica a trovare un assetto politico stabile, e deve fare i conti con una radicalizzazione preoccupante della destra, appare irresponsabile.
Quando fu eletto per la seconda volta presidente delle Repubblica, nel 2013, Giorgio Napolitano tenne un discorso durissimo, che a questo punto possiamo ben dire sia entrato nella storia. Accettando, come ora è stato costretto a fare Mattarella, la prospettiva di un nuovo mandato, il presidente uscente mise l’intera classe politica di fronte alle proprie responsabilità: «Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti, che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale, non si sono date soluzioni soddisfacenti; hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi, e strumentalismi. Ecco cosa ha condannato alla sterilità o a esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento. Quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica è stato, dunque, facilmente ignorato o svalutato e l’insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti e il Parlamento sono state con facilità, ma anche con molta leggerezza, alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono». Non sappiamo se questo monito troverà eco nelle parole che Sergio Mattarella rivolgerà al Parlamento e al Paese nel momento in cui assumerà per la seconda volta l’incarico di capo dello Stato. Ciascun presidente ha la sua personalità e il suo «stile». Ma potrebbe ben farlo. Questo sarebbe sufficiente a rendere buona parte delle manifestazioni di giubilo cui abbiamo assistito in queste ore francamente inopportune. Certo, dobbiamo rallegrarci dell’elezione di un presidente capace e probo, sperare che anche con il suo contributo il Paese esca dalla situazione difficile in cui si trova in questo momento, ma sarebbe superficiale e irresponsabile ignorare che questa rielezione è frutto di un fallimento politico, e ha dato un segnale che per buona parte dei cittadini non può che apparire preoccupante. Per la seconda volta nel giro di pochi anni un Parlamento incapace di trovare un accordo sulla figura più adatta a diventare il «magistrato di persuasione e di influenza» concepito dalla costituzione è costretto a pregare un presidente che non voleva farlo di rendersi disponibile per un secondo mandato. Che alcuni si siano mossi meglio di altri sul piano della tattica parlamentare non modifica questa amara realtà con cui dobbiamo fare i conti.
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