Questo articolo fa parte dello speciale Quirinale 2022
La rielezione di un riluttante Sergio Mattarella viene da lontano. Segna il fallimento della classe politica che è stata espressa, sin dalla fine degli anni Novanta, dagli attuali partiti. Partiti che forse sarebbe meglio chiamare per quello che sono stati e sono: aggregati casuali della post-politica, via via sempre meno orientati da valori generali e sempre più invece da ambizioni personali dei loro leader.
Siamo dunque all'atto finale di una degenerazione cominciata molti decenni fa, nella progressiva ritirata dei partiti di allora dal terreno della società sul quale erano storicamente nati e si erano consolidati. Il passaggio da quella stagione «eroica» del partito costola dello Stato, nel quale si insediavano (anzi che occupavano) e dal quale traevano il loro sostentamento e non solo nei termini del pur discutibile finanziamento pubblico. Un fenomeno che, naturalmente, si è manifestato gradualmente e in modo diverso a seconda dei partiti di allora: ma che in molti, già nel corso degli anni, Ottanta cogliemmo; e che, ancor più di noi – che scrivevamo sui giornali di provincia – colsero i nostri maestri.Siamo all'atto finale di una degenerazione cominciata molti decenni fa, nella progressiva ritirata dei partiti di allora dal terreno della società sul quale erano nati
Una crisi, quella dei partiti, che esplose visibilmente con Tangentopoli, per poi passare attraverso il degrado morale del berlusconismo – un regime personale basato sul travolgimento delle incompatibilità tra interessi privati e pubblici – e, infine, culminare nel suicidio del ceto politico«nuovo» figliato da quelle stagioni storiche.
Si realizzano così oggi le fosche previsioni del passato: l'allarme accorato di Enrico Berlinguer per la caduta della tensione morale (chi può dimenticarlo?), il messaggio terribile di Aldo Moro dalla cella delle Brigate Rosse su ciò che sarebbe stato l'avvenire della Dc dopo la sua morte. Così come le parole profetiche di Craxi dal suo esilio tunisino: sì anche quelle, che pure allora in molti non percepimmo. Leader ognuno dei quali criticabile per gli errori compiuti, più o meno a seconda del giudizio politico che se ne può dare, ma accomunati nel sentimento di un precipitare storico degli eventi che preludeva a quanto oggi sta succedendo.
Non si tratta di un fenomeno solo italiano, ben inteso. Il declino è universale e basta guardare all'Europa e agli stessi Stati Uniti, per non dire poi della Russia, della Cina, dei Paesi dell'Africa dai quali ci si attendeva un tempo una nuova stagione di democrazia vitale e rigeneratrice. Da noi però la malattia si è espressa con una violenza assai maggiore che altrove, potendosi sviluppare (e questo è un problema storico che ci portiamo dietro da un secolo e mezzo almeno come Stato nazionale, e da assai più tempo come collettività) sul facile terreno della nostra fragilità istituzionale, della nostra vocazione antica al compromesso, nella nostra atavica assenza di senso dello Stato. In definitiva nella nostra solo apparente saldezza come comunità solidale e partecipe dei comuni destini.
L'Italia è stata fatta tardi e male, come sa chi ne ha studiato la storia, e lo si avverte, nonostante tante pagine virtuose anche nelle cronache contemporanee. Oggi, un ceto politico imbelle non riesce a trovare un accordo quale che sia per eleggere la più alta carica dello Stato ed è costretto ad arrendersi ricorrendo alla figura carismatica del presidente uscente, al quale nelle scorse ore, in un pellegrinaggio mortificante già visto all'epoca di Giorgio Napolitano, è costretto a chiedere supplenza e aiuto, invocandone in pratica una sorta di attività tutoria.
Si dirà che è colpa delle elezioni del 2018 e del loro esito schizofrenico: è vero. Ma anche quel risultato va messo nel bilancio quando si tirano le somme, perché non è venuto anch'esso per caso: anche la follia di quei voti dati «per cambiare» (così si pretendeva che fosse) al populismo berciante e privo di orizzonti di Beppe Grillo; o quella deriva di destra rabbiosa e inconsulta; e quella passività delle forze politiche tradizionali, la loro irritante e cieca sufficienza mentre tutto attorno a loro stava crollando, a trovare una risposta coerente unitaria ai bisogni del Paese.
Allora qualcuno disse – e aveva ragione – che si sarebbero dovute riformare le istituzioni, facilitare con opportune misure il governo del Paese, facilitare e non disperdere in mille sedi separate e tra loro incomunicanti i processi decisionali della politica. Si fece strame di quel progetto per settarismo politico o interessi contingenti di potere, e ne stiamo pagando le conseguenze. Da troppi anni stiamo parlando a vanvera di riforme istituzionali.
Come se ne è usciti adesso? Rieleggendo Mattarella. Un grandissimo presidente, certo, assai superiore al livello degli italiani di oggi; ma che non potrà da solo creare le premesse per risalire dal fosso nel quale siamo finiti. Si tratterebbe infatti di compiere uno sforzo sovrumano: prima di tutto di darsi nuovi e efficaci strumenti istituzionali, che aggreghino il Paese e non lo dividano ulteriormente (dunque non il sistema proporzionale, questo è certo); poi di riformare l'istituto stesso della presidenza della Repubblica; quindi di ripartire i poteri tra governo e Parlamento, assicurando la permanenza almeno per una legislatura del primo (sfiducia costruttiva?) e la rinascita politica del secondo e della sua autonomia.Si tratta di selezionare una classe politica formandola come un tempo la formavano i partiti che oggi non ci sono più, sperimentandola in un cursus honorum che parta dalle funzioni minori per giungere a quelle di vertice
Ma poi, sullo sfondo, ecco la cosa più difficile, si tratterebbe di selezionare una classe politica diversa da quella attuale, formandola come un tempo la formavano i partiti che oggi non ci sono più, sperimentandola poi in un cursus honorum che parta dalle funzioni minori per via via promuovere i migliori a quelle di vertice. Tuttavia, forse anche questo non basterebbe, se non vi fosse nel Paese una profonda riforma intellettuale e morale fondata sulla competenza di chi ha i requisiti, sul riconoscimento del merito individuale che va premiato, sulla distinzione, nell'eguaglianza dei diritti di tutti (tutti debbono potere acceder), delle eccellenze che pure abbiamo e che mortifichiamo o costringiamo a emigrare.
Perché governare un Paese, e non solo dai ministeri, cioè creare una vera classe dirigente, non è un gioco da ragazzi né da sprovveduti dilettanti allo sbaraglio. Va costruita, la nuova classe politica del domani. Sapremo farlo?
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