L’elezione del presidente della Repubblica suscita certamente molto interesse, perché si tratta dell’unica istituzione rappresentata da un’unica persona, che da sola esercita molti poteri che possono essere, soprattutto in determinate circostanze, assai rilevanti.

Ciò avviene, peraltro, nell’ambito di un mandato della durata di ben sette anni, che attraversa almeno due legislature (Scalfaro e Napolitano ne hanno attraversate addirittura tre) e generalmente un certo numero di governi (dai cinque di Ciampi ai nove di Leone e Pertini).

In questo lungo periodo, la situazione politica e sociale può subire cambiamenti importanti: Scalfaro vede addirittura la trasformazione dell’intero sistema dei partiti, con il passaggio dalla «Prima Repubblica» alla «Seconda»; Napolitano assiste alla fine del bipolarismo e al più fragoroso ingresso di una nuova forza politica in Parlamento, con il 25% del M5S nelle elezioni del 2013.

L’evoluzione del quadro politico può determinare la necessità che il presidente adegui l’esercizio dei propri poteri, che la Costituzione contempla in modo da assicurarne la flessibilità, tanto che per descriverli è stata utilizzata l’immagine della fisarmonica. Questa capacità di adattamento, necessaria ad agevolare il funzionamento delle istituzioni e il rapporto tra queste e i cittadini, dipende da diversi fattori che dipendono anche dalla personalità e dall’esperienza del presidente.

Il mandato del presidente è condizionato anche dal modo in cui egli giunge al Quirinale e in particolare, quindi, dalla maggioranza con cui è stato eletto. La scelta del capo dello Stato è infatti espressione di una scelta politica

In effetti, le dodici personalità che si sono avvicendate a capo dello Stato sono molto diverse, ma accomunate da una solida esperienza istituzionale e politica, per quest’ultima facendo eccezione Ciampi, che comunque era una figura collocabile nell’area di centrosinistra. Ben otto dei dodici avevano presieduto un’assemblea elettiva: dalla Camera dei deputati del Regno d’Italia (De Nicola) all’Assemblea costituente (Saragat); dalla Camera dei deputati (Gronchi, Leone, Pertini, Scalfaro e Napolitano) al Senato della Repubblica (Cossiga), tre fra questi (Cossiga, Gronchi e Scalfaro) essendo in carica al momento dell’elezione al Quirinale. E, in effetti, nessun presidente della Repubblica è stato finora eletto trovandosi a riposo o comunque impegnato in un’attività esterna alle istituzioni: oltre ai tre che erano presidenti in carica della Camera o del Senato, ben quattro erano ministri (Einaudi, Segni, Saragat e Ciampi), due senatori a vita (Leone e Napolitano), uno deputato (Pertini) e uno giudice costituzionale (Mattarella). Se è vero che nessuno è stato eletto mentre era presidente del Consiglio dei ministri, ben quattro (Segni, Leone, Cossiga, Ciampi) lo erano stati in precedenza, uno (Einaudi) era vicepresidente del Consiglio dei ministri e uno (Mattarella) lo era stato. In ogni caso tutti, tranne Pertini, avevano avuto esperienze di governo. Tutti, tranne Ciampi, erano stati eletti e avevano quindi una chiara appartenenza partitica e una militanza più o meno accentuata, anche se solo Saragat era stato segretario di partito (Pertini aveva, però, guidato i socialisti per pochi mesi nel 1945).

Per quanto dicevamo, il mandato del presidente è condizionato anche dal modo in cui egli giunge al Quirinale e in particolare, quindi, dalla maggioranza con cui è stato eletto. La scelta del capo dello Stato è infatti espressione di una scelta politica. Così, ad esempio, quando viene eletto il capo provvisorio dello Stato, poi divenuto il primo presidente della Repubblica con l’entrata in vigore della Costituzione, la scelta cade su De Nicola, un autorevole liberale meridionale schierato per la monarchia, di cui è noto il senso dello Stato e il puntiglioso rispetto delle regole, ad opera di una maggioranza ampia, sostanzialmente comprendente tutte le forze antifasciste che hanno avuto tanta parte nella liberazione del Paese e che stanno governando insieme. Viceversa, la scelta di Einaudi è dettata dalla volontà di De Gasperi di insediare a capo dello Stato una personalità che non sia espressione del proprio partito, ma che faccia comunque parte dell’alleanza di governo e che non veda la convergenza della sinistra.

Più in generale, possiamo notare che ci sono stati presidenti di maggioranza (Einaudi, Segni, Leone, Napolitano, nel primo mandato e, in parte, Mattarella) e presidenti di larghe – o a volte larghissime – intese (De Nicola, Gronchi, Saragat, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, nel secondo mandato). Occorre, però, precisare che tra i presidenti di maggioranza solo alcuni sono di vera e propria contrapposizione: certamente Segni e Leone, eletti «contro», rispettivamente, Saragat e De Martino/Nenni, a stretta maggioranza, con l’apporto determinante della destra esterna all’arco costituzionale. Un po’ più sfumata la contrapposizione nell’elezione di Einaudi, sul quale alla sinistra non si dà volutamente il tempo di convergere. Napolitano, per il primo mandato, è eletto dalla sola maggioranza, ma con la scheda bianca dell’opposizione (salvo la Lega che vota Bossi), mentre Mattarella, pur candidato dalla maggioranza, intercetta il favore di Sel, raggiungendo quasi i due terzi e vedendo il resto dell’opposizione divisa tra la scheda bianca (Forza Italia), l’ex magistrato Imposimato (5 Stelle) e il giornalista Vittorio Feltri (Lega-Fratelli d’Italia). Le larghe intese più strette sono quelle del secondo mandato di Napolitano, che non vede la convergenza del partito di maggioranza relativa, il M5S, che vota Rodotà.

La storia dimostra come l’elezione a larga maggioranza dia normalmente forza al presidente. Evidente è il raffronto tra Leone e Pertini: mentre al secondo è concesso moltissimo (perfino trattare direttamente una vertenza con i sindacati al posto del governo o bacchettare espressamente quest’ultimo per il ritardo dei soccorsi in Irpinia), il primo, nella stagione dell’unità nazionale, è trattato da estraneo dal suo stesso partito e lasciato solo di fronte alle più diverse accuse. C’è anche chi dilapida l’ampia base del proprio consenso, come Cossiga, che arriva a scontrarsi con il suo stesso partito (e il suo principale sponsor, De Mita), oltre che con gli eredi del Pci, decisivi per la sua elezione al primo turno. Viceversa, altri riescono a conquistare chi non li ha votati, come Napolitano, che al momento della rielezione vede convergere gran parte del centrodestra, o Mattarella, che è parso godere generalmente di apprezzamento anche nelle forze politiche che non lo hanno votato (se escludiamo i difficili passaggi in sede di formazione del primo governo Conte).

Il Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali, che conta 1009 elettori, è frammentato e sostanzialmente senza maggioranza

Tutto questo ora pesa sull’imminente elezione.

In questo caso, il Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali, che conta 1009 elettori, è frammentato e sostanzialmente senza maggioranza. Il centrodestra, che si è detto più volte poter contare sulla maggioranza, in realtà, ne è lontano: secondo alcune analisi (ad esempio, quella compiuta da D’Alimonte su «Il Sole – 24 Ore» o quella di Valbruzzi uscita qui sul «Mulino», entrambe il 18 gennaio 2022, mettendo insieme anche i piccoli gruppi e i delegati regionali arriverebbe a 419 voti, che rendono la maggioranza assoluta irraggiungibile pure con il soccorso della sempre più vicina «Italia viva», 44 parlamentari). D’altronde, lo schieramento M5S-Pd-LeU-FacciamoEco, considerati anche i delegati regionali, dovrebbe arrivare al più o meno analogo numero di 420 elettori. Nel mezzo abbiamo un panorama molto frammentato ed eterogeneo, i cui orientamenti saranno probabilmente diversi per i diversi gruppi e non sempre facilmente prevedibili.

Tutto ciò rende sostanzialmente impossibile l’elezione di un presidente chiara espressione di una delle due parti principali, come certamente è Berlusconi, contro la cui elezione milita anche il suo curriculum istituzionale e personale (si pensi solo alla condanna per frode fiscale). Viceversa, la situazione consiglia un presidente di larghe intese, ponendo in una posizione di forza Draghi, che già nella formazione del suo governo è riuscito a coagulare un’ampia base parlamentare. Naturalmente, altre ipotesi (tra le quali è stata avanzata, ad esempio, quella di Amato) sono possibili, ma richiedono un confronto serio e riservato perché l’impressione è che, visti i rapporti di forza, qualunque nome presentato direttamente da una parte rischi di essere difficile da accettare da parte degli altri. Se non si riuscisse a raggiungere un’ampia convergenza su un nome, infatti, gli scrutini sembrano destinati a succedersi a lungo (nel 1964 ne occorsero 21, nel 1971, 23, nel 1978 e nel 1992, 16) e potrebbe arrivare alla presidenza un candidato che, alla fine, magari anche un po’ per caso, riesce a malapena a tagliare il traguardo, come accadde con Leone, un candidato con tutti i requisiti, eletto nel modo peggiore, con conseguente ipoteca sull’intero mandato. Finito, infatti, male sei mesi prima della scadenza.