Questa Grammatica dell’italiano adulto, di Vittorio Coletti, è tutt’altro che una “grammatica” nel significato tradizionale della parola. Anzi, citando la quarta di copertina, «è una grammatica amichevole ed essenziale del nuovo italiano», una grammatica insomma che non monta in cattedra per ricoprire di segnacci rossi e blu le nostre quotidiane conversazioni o scritture digitate e che non intende dotarci degli strumenti necessari a correggere implacabilmente i discorsi dei nostri incauti conoscenti o del giornalista televisivo di turno. Al contrario, insegna a chiedersi il perché di certe infrazioni alla lingua e perché queste divengano sempre più comuni: dagli accenti che si ritraggono (èdile al posto del corretto edìle) a quelli che avanzano (diatrìba al posto del corretto diàtriba), dal congiuntivo in regresso (“penso che va bene” anziché “penso che vada bene”) al futuro usato per esprimere ipotesi (“che ore saranno?”) o all’imperfetto di cortesia (“volevo un chilo di mele”).
Coletti si avvale del suo stile affabile ma stringente per condurre il lettore attraverso i punti critici della pronuncia e della grafia dell’italiano, le particolarità del numero e del genere dei sostantivi, degli aggettivi, dei pronomi e articoli, delle preposizioni e congiunzioni, del lessico e della sintassi. Non deve ingannare l’apparente somiglianza con l’indice di una grammatica scolastica: qui c’è un diverso modo di guardare agli argomenti grammaticali, un modo “adulto” appunto, perché è rivolto a persone che l’italiano l’hanno studiato a scuola, che lo conoscono e lo parlano quotidianamente, ma che spesso vengono colte da dubbi, incertezze riguardo all’uso di certe parole o alla correttezza di certe costruzioni (tecnico o tennico? adempiere a qualcosa o adempiere qualcosa?).
L’approccio non è quello prescrittivo del giudice ma, si potrebbe dire, quello comprensivo del sodale più esperto: se siamo incerti tra èdile o edìle, tra persuàdere o persuadére Coletti ci spiega che ciò non dipende tanto dal fatto che non abbiamo imparato bene la forma corretta con l’accento sulla penultima sillaba (edìle, persuadére) quanto da una tendenza attiva nell’italiano, e riconosciuta dai linguisti, alla “baritonesi”, cioè alla retrocessione dell’accento nei polisillabi che usiamo meno di frequente. E che dire delle difficoltà che tutti prima o poi incontrano nella coniugazione dei verbi? Coletti intanto tranquillizza: le costanti (ad esempio le terze persone plurali in -no: mangiano, ridevano, partirono...) sono molte e sbagliarle è difficile; poi spiega il perché delle eccezioni in cui inciampiamo, addomesticandole un poco (le terze persone plurali in -ro – ebbero, mangerebbero, partissero – sono etimologicamente collegate tra di loro).
Anche delle impreviste incongruenze tra grafia e pronuncia che caratterizzano anche una lingua come l’italiano, c'è quasi sempre una spiegazione che si può rintracciare nella storia della nostra lingua, nel suo particolare percorso di formazione come continuazione del latino volgare. Rispetto al latino, infatti, l’italiano ha introdotto non solo suoni nuovi (la c di cena e la g di gente) ma anche segni grafici nuovi (v, gl ecc.), ha dato vita a categorie grammaticali più ampie e comprensive in seguito alla scomparsa del genere neutro e alla redistribuzione di tutte le parole in due soli generi, maschile e femminile.
Più difficile invece spiegare certe infrazioni alla norma che, complice la cassa di risonanza dei vecchi e nuovi media, divengono “virali”, ottenendo grande successo presso i parlanti. Si pensi ad esempio al sempre più frequente uso di piuttosto che al posto della disgiuntiva o, oppure: come convincere i conduttori televisivi di talk show e i loro ospiti che piuttosto che ha valore di comparazione di preferenza e non di alternativa compatibile? Se dico che “il bambino mangia il pesce piuttosto che la carne” significa che “preferisce il pesce”, non che “mangia indifferentemente la carne e il pesce”. Interpretare male la frase, significa avere il 50% di possibilità di propinare al povero bambino la pietanza che gli è sgradita…
Altro punto delicato e dolente dell’italiano di oggi riguarda la forma femminile di certi nomi di professione. La ministro o la ministra? La sindaco, la sindaca o la sindachessa? O perché non il sindaco donna? I giornali hanno scelto da tempo per la semplificazione: così Angela Merkel è la cancelliera e Maria Elena Boschi è la ministra. Ma nell’uso quotidiano la resistenza dei parlanti al ricorso al femminile per professioni una volta appannaggio degli uomini è ancora piuttosto diffusa. Una resistenza che però non ha ragioni linguistiche plausibili, semmai squisitamente culturali: come spiega bene Coletti, è solo la poca familiarità con il femminile di soldato a farci pensare che la parola soldata sia scorretta o sia un abuso grammaticale. Se si guarda all’etimo, si scopre che soldato deriva dal participio passato del verbo antico soldare “assoldare, arruolare”, e dunque, come tutti i participi passati, ammette una forma maschile e una femminile.
Nel capitolo dedicato al lessico dell’italiano e alla sua composizione, non viene elusa l’annosa questione delle parole straniere, da un lato, rassicurando quanti paventano l’invasione degli anglicismi, dall’altro, però, suggerendo che «pensarci due volte prima di usarne una straniera quando è disponibile un valido equivalente in italiano non sarebbe male. Anzi, è forse uno dei compiti primari di (e per) un italiano adulto». E in questo richiamo alla considerazione della variabilità della lingua nelle diverse situazioni comunicative sta il nocciolo del volume, perché, come scrive Coletti, «la grammatica dell’italiano adulto è consapevole di dover variare o addirittura sospendere, in determinate situazioni e concreti modi comunicativi (i testi), le regole astratte del sistema che fa funzionare la lingua e, quindi, sa che, in date circostanze, persino l’errore o l’imperfezione grammaticale possono essere giusti o non sbagliati. Ma, soprattutto, sapendo che essi sono quasi sempre spiegabili, impara a conoscerli per evitarli o correggerli quando bisogna, e ad ammetterli o a non scandalizzarsene troppo quando sono tollerabili».
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