Lo storico David Bidussa ha da poco pubblicato un’antologia di alcuni scritti di Benito Mussolini prodotti dal 1904 al 1945: un lavoro costruito non per “fare un bilancio, o fissare i termini per una discussione generale”, ma per contribuire a un dibattito ampio che debba anche “affiancare le piste di ricerca di una nuova generazione di storici, cresciuti nell’Italia della Seconda Repubblica, che esplorano i percorsi biografici, culturali, ideologici, politici non solo dei fascisti originari, ma anche di chi al fascismo è arrivato dopo…” (p. XIV). Bidussa, da rigoroso storico delle idee, allude infatti a uno straordinario quadriennio appena trascorso (dal centenario di San Sepolcro a quello, odierno, della Marcia su Roma) in cui la discussione pubblica sul fascismo ha avuto un nuovo e più fresco sviluppo, con l’apertura di un dibattito storico, ancora ovviamente da dispiegarsi appieno, ma decisamente vitale.
Un volume corposo che, nell’idea del curatore, delinea un ritratto in movimento di Mussolini a partire da una serie di testi sapientemente raccolti: dai discorsi pubblici (nazionali e internazionali) agli articoli di giornale, dalle interviste sulla stampa estera alle relazioni tenute in assemblee di partito, strutture corporative o aule parlamentari.
Non si tratta però di una semplice asettica e/o enciclopedica antologia, ma di documenti introdotti da una densissima introduzione in cui Bidussa introduce la raccolta, giustifica la sua cernita, ma soprattutto propone una lettura storica precisa e audace. Un ritratto di Mussolini in cui si sommano senza rendersi indistinguibili andamento biografico, contesto, visione ideologica, impegno politico, prima, e gestione dello Stato, poi.
L’autore dichiara apertamente infatti di volere “non tanto ricostruire la vicenda del Duce, ma entrare nella sua politica” (p. XII), nell’ottica insomma di raffigurare un ritratto storico unitario ma, allo stesso tempo, dinamico e pulsante. Il Mussolini pre- e pienamente totalitario che ne nasce è, più che un figlio del secolo, “il rappresentante di una generazione di uomini politici” (p. XI) spiccatamente nuovi, geograficamente periferici e ferocemente antidemocratici.
La selezione dei testi proposta è accuratissima e l’aspetto più interessante è senz’altro l’eterogeneità delle fonti; non si tratta infatti di una raccolta omogenea, ma che alterna sapientemente diverse tipologie di discorso pubblico. L’intento è anche mostrare come Mussolini padroneggi più registri narrativi (dai balconi ai congressi alle radio) e come sappia rivolgersi a pubblici molto diversi: da quelli delle adunate solenni dall’eco nazionale in cui il Duce annuncia svolte o decisioni storiche, a quelle “interne” al composito mondo del fascismo italiano (sindacale, partitico, corporativo…), soprattutto negli anni del regime.
L’intento è anche mostrare come Mussolini padroneggi più registri narrativi e come sappia rivolgersi a pubblici molto diversi: da quelli delle adunate solenni in cui il Duce annuncia svolte o decisioni storiche, a quelle “interne” al composito mondo del fascismo italiano
L’antologia è costruita in modo meditato, attento ma non scontato; alcuni testi sono noti, altri molto meno, ma nell’insieme i documenti proposti servono a Bidussa per elaborare una sua originale, e sicuramente ambiziosa, periodizzazione della vita/pensiero di Mussolini.
Sono delineati “tre autoritratti” del Duce (1913-1922-1932), cadenzati e costruiti da articoli incendiari come tappe quasi decennali per capire come il protagonista “ha preso le misure della sua dimensione politica, […] sia tracciando un bilancio del passato, sia definendo il profilo culturale e politico del tempo ‘a venire’” (p. XVIII). Un Mussolini dentro e contro la santa teppa del 1913 che tra le pagine della sua “Utopia. Rivista quindicinale del socialismo rivoluzionario” costruisce un nuovo immaginario mobilitante e sovversivo, risemantizzando alcuni termini del vocabolario socialista, parlando più di squadra d’azione che di organizzazione di massa. Un Mussolini in camicia nera del 1922 che da “Gerarchia” grida con forza (anche al mondo anglosassone) la missione del movimento/partito fascista; e un Mussolini in doppiopetto, da dieci anni al potere, che brinda a se stesso conversando nella sala del mappamondo di Palazzo Venezia con Emil Ludwig e parlando, in chiaroscuro, anche dei suoi ragazzi (Bottai, Farinacci, Balbo e Spirito) diventati ormai adulti a dieci anni dalla Marcia su Roma.
Tuttavia, la parte più interessante, e che sarebbe bene discutere a fondo, è come la selezione documentaria di Bidussa vada a periodizzare inevitabilmente, insieme alla turbinosa biografia ideologica del Duce, la storia dello stesso fascismo italiano.
La vicenda di Mussolini, infatti, è narrata attraverso le sue parole a partire da un primo blocco temporale (1904-febbraio 1914) che comincia con un giovane romagnolo che inizia la sua vera e propria carriera da giornalista, rientrando in Italia dalla Svizzera (terra in cui riparò ventenne per sfuggire al servizio militare) e approdando a una rilettura della storia del mondo socialista (anche eretico) inteso come una minoranza attiva che deve aggredire il futuro elaborando “le nuove forze della società” per “demolire costruendo” (p. 98). Un futuro Duce che viaggia, milita, assorbe ogni stimolo, ascolta e descrive da apprendista per varie testate la situazione, maturando e salendo fino alla direzione dell’ “Avanti”. Segue poi un secondo periodo (“Ni droite, ni gauche”) che va dall’ottobre 1914 al maggio 1920 cioè, come è noto, dalla genesi e il dispiegarsi del suo interventismo al secondo congresso dei Fasci di combattimento, passando, dopo la “trincerocrazia”, per l’importante comizio operaio di Dalmine, San Sepolcro e gli auguri, invidiosi e freddi, all’impresa fiumana.
Segue poi, secondo Bidussa, un Mussolini che dal maggio 1920 al 1926 scala, costruisce e guida la destra fino al governo e alla costruzione del Regime, coronata, dopo venti giorni dall’attentato di Zamboni, dall’arrivo del Tribunale speciale che difenderà lo Stato e “non farà vendette, ma severa giustizia” (p. 345). Arrivano poi gli ultimi due periodi: quello della costruzione del totalitarismo (1926-1936) e quello del suo compimento (1936-1945), fino all’ultimo discorso del 23 aprile nel cortile di Palazzo Monforte a Milano in cui dichiara ai suoi pretoriani di prepararsi a dirigersi in Valtellina per “fare il quadrato per l’ultima e disperata difesa” (p. 627). I motori dei mezzi e l’uniforme da soldato tedesco sono già pronti e il Duce si avvia al suo destino, proprio nelle ore in cui l’insurrezione partigiana di Milano chiude definitivamente la storia del fascismo italiano, proprio nella città dov’era nato.
Bidussa non sfugge però alla domanda su cosa sia rimasto nell’Italia repubblicana e lo fa proprio a partire da Renzo De Felice e George L. Mosse e dalle loro imprescindibili letture di cosa è stato il fascismo. Se il primo infatti ne ha sottolineato la non-omogeneità e l’aspetto totalitario, il secondo ne ha colto l’immaginario mainstream e la costruzione mitopoietica di massa, potremmo dire con il linguaggio dell’oggi.
Secondo Bidussa il Fascismo italiano più che porre temi epocali ha fornito le sue ricette a questioni ben più profonde, ponendo al centro di tutto lo Stato, inteso, secondo l’ideatore dell’antologia, come “totalitario”, cioè presenza costante nella vita quotidiana di ognuno
Tuttavia, afferma con forza il curatore, in Italia restano sul piatto dopo il 1945 quattro questioni che appartengono a “qualsiasi sistema politico di massa del Novecento” (p. XIII), ma che, da noi, erano già chiarissime nella mente di Mussolini: il problematico rapporto Stato-cittadini, il tema della modernizzazione (come strategia di sviluppo industriale-infrastrutturale), l’idea di ricercare su che costruire una “comunità nazionale” (natalità, confini, identità culturale…) e il carattere decisivo del welfare state (soprattutto previdenziale). Secondo Bidussa insomma il fascismo italiano più che porre temi epocali ha fornito le sue ricette a questioni ben più profonde, ponendo al centro di tutto lo Stato, inteso, secondo l’ideatore dell’antologia, come “totalitario”, cioè presenza costante nella vita quotidiana di ognuno.
Il volume costruito da Bidussa è sicuramente figlio di un ragionamento dialettico, del resto l’autore dice esplicitamente che “in storiografia non esistono risposte conclusive” e che “un’antologia come questa apre piuttosto questioni che richiedono un confronto aperto col nostro passato”; ma, non possiamo non sottolinearlo nuovamente, è anche un saggio ambizioso, proprio perché mette sul tavolo una lettura storica precisa e netta.
Gli aspetti di cui discutere possono essere quindi tanti, in linea ovviamente con le scelte “forti” di Bidussa: dalla sua rilettura critica del paradigma defeliciano del “totalitarismo imperfetto”, al rapporto tra mussolinismo e fascismo visto come identitario e non solo strettissimo, ad un certo riduttivismo populista del sansepolcrismo. Tutte ipotesi interpretative che l’autore indubbiamente sostiene, soprattutto con la scelta dei raggruppamenti cronologici dei testi, ma che forse avrebbero meritato una narrazione introduttiva più estesa, soprattutto in rapporto a quella che è la critica al De Felice del “Mussolini rivoluzionario” e del “Mussolini il Duce” o, anche, al Gentile del più recente “Quando Mussolini non era il Duce”. Ovviamente, più che una mancanza, è un invito a proseguire nella ricerca e nel confronto, anche collettivo.
Sul suo “Popolo d’Italia” il 13 ottobre 1919 il sansepolcrista Benito Mussolini scriveva “[…] quel rifugio di tutti gli eretici, quella chiesa di tutte le eresie che è il fascismo”, una definizione precoce, spesso dimenticata, ma profetica di quella che sarebbe stata successivamente la storia delle destre radicali europee. Possiamo ancora intendere il "Fascismo" con la effe maiuscola, quello italiano, come prodotto originale, poi copiato all’estero in una sorta di autarchia ideologica? Oppure è stato, invece, una malattia che ha sviluppato molte varianti e prodotto una pandemia continentale tra le due guerre?
L’antologia mussoliniana costruita da David Bidussa e la sua postura di ricerca sono un’ottima leva per confrontarci, successivamente, con: uno studio multidisciplinare del tema, le tante discussioni pubbliche anche attuali e le stringenti vicende storico-culturali internazionali; tutte strade in cui cosa c’è di italiano nella storia dei fascismi europei ma anche cosa c’è di europeo nella storia del fascismo italiano sono domande che occorre porsi insieme e contemporaneamente.
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