Questo articolo fa parte dello speciale Quirinale 2022
Orientarsi nel dibattito sull’elezione del prossimo presidente della Repubblica è tutt’altro che semplice: abbondano sofismi e interpretazioni in punta di diritto. In un quadro generale che credo meriti qualche considerazione.
Iniziamo dal considerare il contesto in cui vennero elaborate le norme costituzionali sul Capo dello Stato. Notorio che era opinione prevalente che si dovesse evitare il «modello americano» per la preoccupazione che si ripetesse quel che era accaduto con la Costituzione di Weimar, che a quel modello aveva fatto riferimento, per di più avendo alle spalle un secolo di dibattito contro il «bonapartismo» che si riteneva risorto con Mussolini e Hitler. Detto questo, ci si rendeva conto che non si potesse affidare a quella carica un puro compito «notarile», semplicemente perché il nostro sistema era fondato su uno scontro di «mondi» ancor prima che di partiti nel senso classico dei manuali ottocenteschi. Di qui derivò quella relativa indeterminatezza nel disegno del ruolo del presidente, che da un lato aveva un compito niente affatto secondario (incarnare l’unità della nazione politica al di sopra del suo consistere nella confluenza di «partiti sociali» contrapposti), e dall’altro lato si vedeva attribuite funzioni di arbitrio e di intervento (per la formazione dei governi, per il controllo di costituzionalità delle leggi, per certe nomine come una parte dei giudici della Consulta e dei senatoria a vita).
Che queste prerogative siano state esercitate solo a partire dalla crisi del sistema dei partiti negli anni Novanta è una leggenda smentita dalla memorialistica di diversi protagonisti. Tanto per dire: basta leggersi i diari di Fanfani per registrare quanto Gronchi e Segni abbiano messo il becco nello svolgimento degli eventi politici, o le memorie di Maccanico per vedere come sia Pertini sia Cossiga sia stati attori attivi nelle vicende politiche del loro tempo. E gli esempi potrebbero coinvolgere anche altri casi.
Finché i partiti erano forti, l’intervento dei presidenti riusciva a raggiungere risultati in genere più limitati e soprattutto le cose si svolgevano più nell’ombra degli arcana imperii
Certamente finché i partiti erano forti, l’intervento dei presidenti riusciva a raggiungere risultati in genere più limitati e soprattutto le cose si svolgevano più nell’ombra degli arcana imperii. Quando la presa dei partiti sul governo del sistema si ridimensionò, l’inquilino del Quirinale poté assumersi direttamente dei compiti che il sistema dei partiti non era più in grado di svolgere. Per dirla con una battuta, tanto Scalfaro quanto Napolitano, che erano stati uomini ben formati nella dialettica dei partiti, si ritennero obbligati a fare dal Colle quello che avrebbero dovuto fare da capi politici in Parlamento (chiaramente con differenze fra i due).
Un secondo punto che va tenuto in considerazione è che il presidente della Repubblica dispone di uno staff importante, che gli garantisce una interfaccia rilevante con tutto il «sistema», tanto quello politico quanto quello amministrativo. È vero che anche nel secondo ambito si sono affermati «feudi» che tendono a considerarsi su un piede di quasi parità. Non è un fenomeno recente, se si pensa che Cossiga dovette intervenire decisamente per impedire che il Consiglio superiore della magistratura si permettesse di sanzionare un atto politico di Craxi presidente del Consiglio, ma certo negli ultimi tempi le cose sono diventate più complesse. Quanto al primo ambito, quello politico-parlamentare, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che i segretari generali del Quirinale sono stati spesso ex alti funzionari delle Camere, e non mi pare un dato da sottovalutare: si tratta della consapevolezza che il presidente è un interlocutore sempre attivo nella dialettica politico-parlamentare-partitica.
Non che con questo si voglia sostenere che ci sarebbe quel semipresidenzialismo di fatto di cui si parla con troppa superficialità. Neppure di fatto il capo dello Stato ha poteri di gestione diretta sull’andamento delle vicende politico-amministrative, perché semplicemente gli mancano poteri di sanzione nel caso in cui i suoi interlocutori non accolgano le sue osservazioni. Per citare qualche fatto banale, il Parlamento e i partiti non hanno tenuto alcun conto di richiami a fare riforme istituzionali o anche semplicemente legislative, così come un corpo dello stato quale la magistratura ha lasciato cadere le sollecitazioni presidenziali ad autoriformarsi.
Neppure di fatto il capo dello Stato ha poteri di gestione diretta sull’andamento delle vicende politico-amministrative, perché semplicemente gli mancano poteri di sanzione nel caso in cui i suoi interlocutori non accolgano le sue osservazioni
È dunque sorprendente che si continui a discutere di un potere di scioglimento delle Camere che il presidente non ha come potere personale arbitrario. Significa che non può sciogliere d’imperio se non col sostanziale consenso del sistema parlamentare impersonato dai presidenti dei due rami del Parlamento, e dunque non può neppure, come verrebbe chiesto da taluni ai candidati al Colle, vincolarsi a non sciogliere se le Camere non riuscissero più a esprimere un governo.
Pur nello schematismo e nella rozzezza di queste note vorrei richiamare l’attenzione sulle ragioni per cui la scelta di un presidente della Repubblica richieda di individuare una personalità che abbia la «caratura» per esercitare una funzione molto complessa, assai delicata (si pensi al suo potere/dovere di rivolgersi costantemente all’opinione pubblica: sappiamo dove si finisce con i «picconatori»). Si tratta naturalmente di doti che sarebbe preferibile venissero certificate ex ante da una storia personale (per questo la Carta mette la soglia dei 50 anni come requisito di eleggibilità). È vero che può anche darsi il caso in cui la fortuna regali un inquilino del Quirinale che magari non aveva mostrato appieno in precedenza quelle grandi doti, ma è più probabile che con storie non proprio brillanti alle spalle si abbiano poi presidenti che vengono travolti dal peso di un ruolo così difficile.
Proprio perché l’elezione del Capo dello Stato è una questione «di sistema», essa andrebbe considerata in questi termini. Ed è ciò che attualmente si fatica a fare.
Il presidente ha il compito di agevolare e anche garantire il funzionamento del sistema nazionale in tutte le sue articolazioni, ma non ha il potere di rimodularlo con un suo intervento diretto, perciò è la dinamica prevista dalla nostra Carta che deve provvedere alla sua articolazione. Oggi questa non funziona bene, né sul piano politico, né su quello amministrativo. Mi fermo sul primo punto in alcuni aspetti, perché non c’è spazio per un discorso più ampio.
Il cuore del problema è attualmente come rimettere in sesto il meccanismo di costruzione/formazione della rappresentanza politica, che è quanto sta al cuore del funzionamento del sistema parlamentare
Il cuore del problema è attualmente come rimettere in sesto il meccanismo di costruzione/formazione della rappresentanza politica, che è quanto sta al cuore del funzionamento del sistema parlamentare, che rimane centrale (è li che passa la fiducia ai governi e l’approvazione delle leggi), ma anche della formazione di una componente importante della classe dirigente. Ciò significa, detto in parole povere, ragionare sulla riforma del sistema elettorale. Sino a oggi è stata pensata in maniera eccessiva come uno strumento per due fini: a) tutelare più o meno il caleidoscopio politico prodotto dalla crisi dei vecchi partiti-mondo; b) forzare la formazione di un governo legittimato da una pronuncia elettorale basata sulle suggestioni di appelli populisti di vario genere. È ciò a cui hanno puntato, magari senza rendersene conto, le riforme elettorali introdotte dopo il crollo della cosiddetta prima repubblica.
È questa situazione che impedisce al presidente della Repubblica di esercitare un ruolo di attivo equilibratore delle tendenze che formano il consenso politico, perché si trova di fronte a un orizzonte confuso che sottopone il suo intervento al condizionamento di essere sempre attaccato come manipolatore esterno di una presunta volontà popolare e che costringe i partiti a muoversi entro le strettoie di una conservazione dei loro equilibri precari da difendere col ricorso sempre più esasperato a tecniche demagogiche di costruzione del consenso.
Una migliore considerazione della reale posizione che andrà ad assumere il futuro inquilino del Quirinale e un serio impegno delle forze politiche a sbloccare la riforma del nostro sistema elettorale aiuterebbero molto a trovare una soluzione all’attuale impasse. E non sarebbe proprio male se l’opinione pubblica premesse in queste direzioni anziché farsi risucchiare nel giochetto dei vari fan-club politici che pullulano in questo Paese.
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