Non c’è alcun numero magico della composizione di una assemblea rappresentativa. Il rapporto tra cittadini ed eletti varia molto, sia tra le assemblee ai vari livelli amministrativi, sia tra i Parlamenti dei diversi Paesi (prendendo in considerazione solo le camere basse, ovviamente, in quanto le uniche comparabili). Se pensiamo che assemblee regionali come quella ligure o marchigiana, con una popolazione di circa 1,5 milioni di persone, eleggono 30 consiglieri, la Camera dei deputati, per rispettare la proporzione, dovrebbe eleggere circa 1.200 membri. Se, all’opposto, prendiamo il caso del Parlamento indiano, abbiamo la proporzione più bassa in assoluto tra popolazione e rappresentanti: l’anno scorso, 921 milioni di elettori hanno votato per appena 550 membri del Lok Sabha, il che equivale a 1 eletto ogni 1,7 milioni di cittadini!

Guardare al rapporto tra popolazione (o elettori) e numero di rappresentanti porta fuori strada. Il punto quindi non riguarda questa relazione, anche se nel corso degli anni, dal dopoguerra in poi, tutte democrazie hanno aumentato, non ridotto, il numero dei parlamentari: riguarda piuttosto la funzionalità di questa istituzione. Certo, in una assemblea di 5.000 persone le dinamiche sono ben diverse da quelle che si innescano in una di 500 o di 50. Ma proprio perché è noto che gruppi superiori ad alcune decine di componenti “funzionano” male, il lavoro delle grandi assemblee è organizzato in maniera da suddividere compiti e funzioni a nuclei più ristretti, dove l’interazione tra le persone si sviluppa più efficacemente.

Infatti, come scriveva Giovanni Sartori in un magistrale articolo del 1974 – Tecniche decisionali e sistema dei comitati (“Rivista italiana di scienza politica”, IV, n. 1) – “i costi decisionali aumentano di altrettanto quanto aumentano i decisori” (p. 11), e quindi la decisione di un grande consesso va delegata a pochi; ma, ammonisce il grande politologo, quei pochi devono essere rappresentativi. E questo pone in primo piano il problema di una legge elettorale e di regolamenti parlamentari che non penalizzino le minoranze. In tutti i Parlamenti si opera soprattutto attraverso le commissioni (ecco dove “si assentano” deputati e senatori…), mentre l’aula è il luogo tribunizio della discussione, spesso polemica e non costruttiva vista anche l’invasione dei mass media, tradizionali e nuovi; gli interventi sono per il pubblico esterno e non per portare a quei compromessi che un tempo passavano per la decision by deliberation. Di deliberazione, nel senso inglese di “discussione aperta volta alla ricerca di un accordo”, nelle aule parlamentari – italiane in particolare – non c’è più nemmeno il ricordo. Quindi, qualunque sia la sua dimensione, il Parlamento funziona grazie alle commissioni dove vengono discusse, e a volte direttamente approvate, le leggi. Detto en passant, va chiarito un malinteso di lungo periodo: il Parlamento esercita prevalentemente le funzioni di indirizzo e controllo, semmai emendando le proposte dell’esecutivo, visto che discute e infine approva, in aula o in commissione, leggi che sono presentate per circa il 90% dal governo.

Premesso tutto ciò, la riduzione del numero dei parlamenti sic et simpliciter consente di aumentare l’efficienza delle commissioni parlamentari? No, perché la quantità di compiti che ricadono sui parlamentari è tale per cui, da un lato, sarebbero oberati da una mole di documentazione che renderebbe impossibile il loro compito (anche aumentando gli staff, tuttora sottodimensionati e sottoutilizzati), da un altro, mancherebbe la voce dei gruppi parlamentari più piccoli. Questo problema sarebbe superabile con una serie di altri interventi legislativi sull’attività delle camere e sul sistema elettorale, perché come detto, in linea di principio, il numero dei suoi componenti in sé non è ostativo a un buon funzionamento. Ma in assenza di tali riforme, che dovevano essere adottate contestualmente e non rimandate a tempi migliori , la riforma parte zoppa. E incespica proprio laddove vorrebbe razionalizzare l’attività del Parlamento. Riformare la Costituzione non è un affare semplice perché può produrre esiti imprevisti e infausti. È la maledizione del Titolo V del 2001, una riforma che ha causato tanti danni, e che proprio in questi mesi di pandemia sono diventati palesi e ben visibili a tutti.

In secondo luogo, ridurre il numero dei parlamentari rende più lasca la relazione tra eletti ed elettori. Vale a dire, aggrava invece di risolvere un problema cruciale della rappresentanza. Già ora, grazie a leggi elettorali cervellotiche e dannose, si è incrinato questo legame. Diminuire ulteriormente i “rappresentanti della nazione” comporta un approfondimento del gap tra cittadini e parlamentari. Proprio la mancanza di un rapporto diretto con la propria constituency – che il sistema elettorale sistema maggioritario uninominale consente di stabilire al meglio – allontana i rappresentati dall’opinione pubblica, li rende distanti e autoreferenziali. In altre parole, ne fa una casta. Il Movimento 5 Stelle, alfiere della lotta contro la casta, in realtà ha introdotto, con la sua proposta, meccanismi che favoriscono il rafforzamento ulteriore dell’immagine negativa dei politici. È già abbondantemente diffusa la percezione di un personale politico che non si cura dei problemi quotidiani delle persone perché vive in un mondo suo, lontano e privilegiato, e non si rende nemmeno conto di quale sia la vita quotidiana dei cittadini normali. Certo, se vi fossero ancora partiti ben radicati nel territorio essi potrebbero, in linea di principio, intervenire per supplire a questo deficit di fiducia operando come terminali delle attività dei loro parlamentari; ma la tendenza va in direzione di una sempre maggiore residualità del partito nel territorio. Non agisce più come terminale locale dei suoi rappresentati, presenti in video e attivi sui social ma fisicamente ignoti ai cittadini del loro collegio elettorale. In questa dinamica si dimentica quanto il rapporto diretto, interpersonale, sia importante per l’attività politica, svilita e tutt’altro che surrogata dai nuovi sistemi di comunicazione.

Infine, il punto che dovrebbe essere sufficiente per una valutazione negativa del referendum riguarda la motivazione cardine dei proponenti: il risparmio finanziario. Di fronte a questa volgarità di basso conio, degna del peggiore populismo, non si può che reagire respingendo la proposta. La motivazione con cui è stata argomentata la riduzione dei deputati e dei senatori è intrisa di un sentimento anti-parlamentare, tipico di chi pensa, illusoriamente, di semplificare e ridurre la politica a referendum continui, senza spazio per riflessioni e mediazioni, dimenticando che è proprio nell’accordo-compromesso tra posizioni diverse che si sostanzia la democrazia parlamentare.

In conclusione, al di là motivazioni più tecniche e puntuali, è l’ispirazione di fondo che pervade l’iniziativa referendaria, questo grumo di antipolitica e di populismo anti-istituzionale, che porta a un rigetto netto della proposta. Non è nemmeno troppo velato il disprezzo per l’istituzione parlamentare e il concetto di rappresentanza, come fosse un'attività disdicevole e financo losca o predatoria. Di fronte a questo atteggiamento, il valore del parlamentarismo e della democrazia delegata va difeso contro chi lo considera un costo, e domani magari un orpello da eliminare.

 

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