Questo articolo fa parte dello speciale Meno parlamentari: sì o no?
Il 20 settembre voterò "no" nel referendum per il taglio dei parlamentari; così coglierò anche l’occasione per celebrare i 150 anni della Breccia di Porta Pia. Non ho mai votato "sì" in un referendum confermativo di una revisione costituzionale; non per partito preso, ma semplicemente perché i testi del 1948 mi convincevano di più. Per quanto concerne il ruolo e la funzione del Parlamento ho sempre ritenuto assurdo mettere in moto la procedura di revisione prevista dall’articolo 138 – voluto a difesa di una Legge fondamentale rigida – quando sarebbe bastato, per dare più efficienza al processo legislativo, riformare i regolamenti. Finendo invece per scrivere nella Costituzione delle norme di contenuto regolamentare (basti pensare che l’articolo 10 della legge Renzi-Boschi sostituiva le 9 parole dell’articolo 70 della Carta ("La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere") con ben 456 parole e diversi rinvii.
Tutto ciò premesso, il mio voto nel referendum/bandiera del M5S è determinato da diversi motivi. Etico-culturali, innanzi tutto. Come scrisse Piero Calamandrei, una Costituzione nasce sempre da quella che lui chiamava una "polemica" con il regime precedente. Una Costituzione, cioè, è sempre un atto di rottura con il passato: una presa di distanza che, di conseguenza, assurge a principio ispiratore del futuro di una nazione. Si potrebbe passare in rassegna le Leggi fondamentali dei più importanti Paesi per avere conferma di ciò. Se così stanno le cose, interroghiamoci per un momento se esista una "spinta propulsiva" della legge del taglione (come del resto di tante norme della Renzi-Boschi) che non siano l’antipolitica, la demagogia e il populismo. Valori sui quali non si costruisce nulla di positivo, perché non è accettabile che le istituzioni che rappresentano la democrazia vengono ridotte a un costo, a uno spreco, a un orpello inutile e dannoso, a un fastidio da sopportare come un paio di scarpe strette durante una cerimonia.
Ovviamente i numeri sono una convenzione e possono essere modificati, ma sulla base di una valutazione serena e non alla stregua della decimazione di un reparto imbelle, che ha mostrato viltà verso il nemico (a parte l’orrore che quelle pratiche incutevano durante la Grande guerra). Vi sono poi dei problemi tecnico-operativi. Se vincerà il "sì", il taglio dei parlamentari sarà come un salto nel vuoto, nel senso che l’approdo sull’altra sponda non esiste, perché l’altra sponda manca ancora. Che il taglio sia un inizio di una fase revisionista a più vasto raggio lo riconoscono tutti, ma effettive certezze non le fornisce nessuno, tanto che non vi è accordo su che cosa e come fare per consentire la traversata, senza precipitare nell’abisso del caos. Nel dibattito che si è aperto, la posizione meno comprensibile – è soltanto un’opinione personale rispettosa di quelle altrui – pare essere la teoria degli antipopulisti del "sì", riuniti intorno alla parola d’ordine: "Non lasciamo ai populisti il merito di un provvedimento giusto".
Il fatto è che i populisti il merito se lo prenderanno comunque, con ragione, perché l’elettorato del "sì" voterà convinto "contro" le istituzioni, la politica, le poltrone, le indennità, i vitalizi e quant’altro è servito in questi anni ad avvelenare l’acqua dei pozzi del vivere civile. I sostenitori del "sì buono" sono generalmente dei nostalgici delusi dalla bocciatura della legge Renzi-Boschi e continuano ad affermare che la riforma vera sarebbe il superamento del bicameralismo. È arduo capire come si potrebbe conciliare questo obiettivo con la conferma della legge sottoposta a referendum: in sostanza avremmo un Parlamento caratterizzato da un bicameralismo più che perfetto (ai "grillini" va bene così; lo hanno dichiarato apertamente). Il Senato sarebbe una Camera divisa per due (con le stesse regole di elettorato attivo e passivo); la Camera uguale al doppio del Senato. Ma Nicola Zingaretti non ha dubbi: nella relazione alla Direzione dem ha affermato: "Certo ci sarebbero difficoltà, ma non sono convinto che se dovessero prevalere i no cadrebbe il governo". Allora dove sta il problema? Per quali motivi sarebbe in gioco non "un’alleanza di governo, ma la tenuta della nazione per i prossimi anni"?
Proviamo, invece, a rovesciare il discorso. Mettiamo il caso (che non ci auguriamo) di una sconfitta del Pd nelle regioni in cui si vota e, come prevedibile, di una vittoria dei "sì" nel referendum. Il primo commento delle opposizioni sarebbe rivolto al governo privo della maggioranza nel Paese. Ma, in più, verrebbe intonato un lugubre de profundis per il Parlamento in carica, di fatto delegittimato dagli elettori. Riuscirà Conte a resistere a questa duplice pressione?
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