Questo articolo fa parte dello speciale Meno parlamentari: sì o no?
Si torna a votare per un referendum costituzionale confermativo dopo che le ultime due volte l’appello al voto ha bocciato una riforma approvata dal Parlamento. Questa volta si tratta di una misura limitata e specifica: la riduzione del numero dei parlamentari. A me pare utile partire da qui: era emerso con chiarezza nel dibattito pubblico proprio nell’ultima occasione del 2016 che ogni riforma costituzionale complessa con ambizioni sistemiche è anche in realtà ambigua, perché porta l’elettore a dover approvare l’insieme, facendo inevitabilmente perno su qualche misura più attrattiva di altre e trasformando di fatto il voto sul merito dei cambiamenti in un plebiscito pro o contro i promotori (con tutto il rischio del caso, amplificato quando questi coincidono con il governo). Qui siamo invece – e dal mio punto di vista questo è del tutto positivo in termini di metodo – a una modificazione specifica e non suscettibile di tante incertezze.
In termini di merito, la proposta di ridurre il numero dei parlamentari in Italia ha una lunga storia ed era stata avanzata da più parti. Quello italiano (con 945 parlamentari) è da tempo uno dei parlamenti nazionali più pletorici rispetto agli Stati democratici paragonabili al nostro Paese, pur ammesso che i confronti non sempre sono lineari. Il loro numero rispecchiava un’epoca in cui le forme comunicative, gli spostamenti, la circolazione delle notizie erano drammaticamente più lenti di oggi. Non ci sono più le ragioni di quell’ampiezza numerica determinata nel 1948 e fissata nel 1963. Ora, alla fine la riforma è stata approvata fondamentalmente sulla spinta del M5S e della sua campagna contro la “casta” e critica della funzione dei rappresentanti rispetto ai rappresentati. Questo può essere e dal mio punto di vista oggettivamente costituisce un limite, data la modalità becera e grezza di questa polemica, ma distinguere il merito dal contesto è sempre possibile.
Peraltro, incardinata per la prima volta in occasione dell’accordo di governo successivo alle elezioni del 2018 (destra-M5S), non si può sottovalutare che alla fine la riforma sia stata approvata in seconda lettura alla Camera con una maggioranza enorme: l’ampiamento è stato frutto certamente del nuovo accordo di governo sinistra-M5S. I disinvolti cambi di posizione possono anche essere rubricati come opportunistici, ma alla fine convergono anche a mostrare che la questione in sé non è così drammaticamente centrale. Credo quindi che i toni accesi sulla qualità del futuro della democrazia – in positivo ma anche in negativo – sarebbe bene fossero messi da parte: la riforma è non epocale, ma non è nemmeno inutile. Un po’ di laicità e di disincanto aiuterebbero la discussione.
I sostenitori del sì hanno agitato soprattutto l’elemento della riduzione dei costi, che è popolare, anche se appare incerto nelle sue dimensioni e certamente non risolutivo, ancorché non demonizzabile in termini di principio (la considerazione dell’entità minima non meriterebbe il classico uso retorico: allora si dovrebbe partire da ben altro…). In secondo luogo, si parla di un effetto possibile di razionalizzazione, che dovrebbe portare a valorizzare di più ogni singolo parlamentare, rispetto a una stagione in cui molti rappresentanti del popolo hanno svolto un ruolo piuttosto anonimo e di massa di manovra per ristretti vertici politici (ovviamente anche grazie alla trasformazione del ruolo delle forze politiche e soprattutto attraverso modalità molto verticistiche di selezione delle candidature). In via teorica, il secondo mi pare un argomento sostenibile, naturalmente collegato ad altre innovazioni che necessariamente non potranno essere solo istituzionali, ma pratico-politiche, cioè collocate sul terreno delicato ma cruciale dei comportamenti e delle abitudini.
Gli argomenti del "no" sono concentrati sulla tesi per cui la riduzione della rappresentanza in termini partitici e anche territoriali sia una ferita per la democrazia. Un corollario di questo discorso è che un Senato di soli 200 membri rischierebbe addirittura di non stare dietro al ritmo dei lavori. Molti naturalmente insistono sull’attacco simbolico al ruolo del Parlamento negli equilibri istituzionali. Qualcuno si spinge a dire che il sistema diverrebbe più oligarchico. Per la verità, la riduzione della rappresentanza delle minoranze da taluni ventilata è del tutto teorica (dipendendo molto i suoi termini dalla vigente legge elettorale). Ma nel suo complesso, devo dire che non trovo molto centrato questo discorso, che anzi assume oggi un significato apparentemente nostalgico dei bei tempi andati in cui la democrazia funzionava. Sottovalutando quello che è invece stato il punto nodale dell’attacco populista alla politica: la crisi del modello tradizionale e la diffusione di modalità di azione e di comportamenti tutt’altro che consoni a una esperienza di democrazia rappresentativa solida e ricca. Devo dire che questa mi pare una componente non secondaria del successo (imprevisto nelle sue proporzioni, quanto magari anche un poco effimero…) della protesta pentastellata. E parallelamente lo stesso atteggiamento ha portato alla debolezza intrinseca della reazione all’antipolitica: anche lo spezzone migliore della classe dirigente politica degli ultimi decenni ha largamente mancato al proprio ruolo – che doveva essere assieme di difesa dei valori e di cambiamento dei mezzi – riducendosi alla fine alla difesa di una esperienza nel suo complesso piuttosto indifendibile.
L’altro argomento per il "no" è la mancanza di contrappesi e completamenti della riforma. Ma questo non è ovviamente un limite assoluto, anzi: proprio la sua approvazione potrebbe stimolare altri e conseguenti passaggi istituzionali e politici. Una riforma dei regolamenti parlamentari, una nuova riflessione sulle modalità sensate per superare il bicameralismo perfetto (del tutto diversa dalla soluzione pasticciata e impraticabile dell’ultima riforma proposta e bocciata nel 2016). E soprattutto una nuova ponderata legge elettorale che – rifuggendo anche in questo caso da ogni approccio taumaturgico che in passato è stato volta a volta applicato ai modelli maggioritari o proporzionali – provi a tenere decentemente assieme le ragioni della rappresentanza e quelle della governabilità.
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