Questo articolo fa parte dello speciale Meno parlamentari: sì o no?
All’inizio tutto era chiaro: il Movimento 5 Stelle voleva punire la “casta”, indebolire un’istituzione (il Parlamento) considerata ormai obsoleta e ricavarne così qualche risparmio da sventolare dall’alto di un balconcino romano. Mi pareva una logica perversa, tesa a sabotare la democrazia che c’è – quella rappresentativa – in cambio di una democrazia promessa che solo qualche “elevato” riesce a intravedere. Ma almeno c’era una logica, un disegno, un’idea – diciamo – di democrazia.
Poi, per qualche strana ragione, più tattica che ideologica, sono arrivate le argomentazioni più sofisticate e pensose. E lì mi sono perso. È possibile si tratti di un mio limite, per difetto di comprendonio istituzionale. Ma ogni volta che provo a confrontarmi con le nuove ragioni del “sì” a questa revisione faccio fatica a trovarle. O meglio: faccio fatica a trovarne un fondamento solido e logico. Gli argomenti dei sostenitori della riduzione dei parlamentari li ho ripassati tutti, ma li trovo tutti debolissimi. Ciò nonostante, può essere utile rivisitarli assieme un’ultima volta.
La prima ragione, quella originale, rispondeva a un’esigenza di risparmio e di maggiore sobrietà nella spesa pubblica. Devo ammettere che, considerate le modalità della spesa pubblica nel nostro Paese, non è un argomento che mi lascia insensibile. Qualche risparmio da spese improduttive è sempre utile e potrebbe essere reimpiegato in altre politiche più efficaci, persino in investimenti che ricadessero nella categoria draghiana del “debito buono”. Tuttavia, la spending review non deve compromettere il buon funzionamento delle istituzioni democratiche: un conto, per esempio, è tagliare la spesa clientelare, un conto completamente diverso è tagliare pezzi di rappresentanza politica. Nel primo caso, il gioco al risparmio vale, eccome, la candela, mentre nel secondo i rischi superano abbondantemente i benefici.
La seconda ragione è, se così posso dire, puramente ragionieristica. Si limita a fare confronti col numero di parlamentari di altri Paesi, talvolta neppure democratici, cercando un improbabile standard europeo verso il quale tutti noi dovremmo convergere. Anche qui, nulla di male nell’argomento in sé, e neppure nella comparazione. Che significa guardarsi attorno per scoprire, grazie al confronto, pregi e difetti del nostro impianto istituzionale. Ma anche la comparazione deve essere fatta con logica, confrontando sistemi simili o simili assetti bicamerali. Che senso ha confrontare la rappresentanza, in termini numerici, di un sistema parlamentare con un sistema presidenziale? E perché mai un bicameralismo paritario e simmetrico come quello italiano, un unicum di cui sarebbe utile sbarazzarci, dovrebbe avere lo stesso numero di parlamentari di un bicameralismo ben differenziato come quello tedesco? Il punto vero è che la riduzione dei parlamentari ha senso all’interno di una diversa struttura del Parlamento, con una Camera che rappresenta la nazione e l’altra che dà voce e poteri ai territori. Al contrario, il taglio dei parlamentari senza un fine, in assenza di un nuovo riassetto parlamentare, è semplicemente insensato.
Fin qui, gli argomenti “forti”, quelli utilizzati in campagna elettorale per scaldare l’audience e convincere gli indecisi. Solo ultimamente sono arrivate le argomentazioni più sofisticate, sorrette però da sillogismi molto fragili. Infatti, in alcuni casi si sostiene che un Parlamento light, ridotto di circa un terzo nel numero di componenti, diventi per magia un Parlamento più efficiente. Meno farebbe rima con meglio. Ma meglio in che cosa o per fare che cosa? Il non detto dei sostenitori della revisione costituzionale è che un Parlamento alleggerito sarebbe anche un Parlamento che procede più spedito, dove le leggi vengono sfornate a getto continuo. Qui l’errore sta a monte, e cioè nell’immagine fuorviante che si ha del parlamento come una sorta di legificio. Peccato che la funzione parlamentare non sia mai stata, né oggi né in passato, quella banalmente legislativa. Al Parlamento (a tutti i Parlamenti, s’intende, non solo quello italiano) spetta la funzione di controllo della legislazione, oltra a quella di controllo politico sulle attività del governo. E se è così, cioè se compito del Parlamento è anzitutto “controllare” e non “legiferare”, allora anche il significato di efficienza parlamentare cambia e la questione si complica. Perché un Parlamento “efficiente” in una prospettiva legislativa può essere, e anzi spesso è, un Parlamento inefficiente in chiave di controllo.
Più tempo si perde a legiferare, meno tempo resta per controllare. Su questo punto valgono ancora oggi le parole che Giovanni Sartori aveva dedicato nel 1963 alle istituzioni parlamentari italiane: “Un Parlamento oberato di lavoro non spaventa nessuno. Un Parlamento che si riserva invece il tempo e le energie per poter controllare diventa invece eo ipso un temuto e efficace controllore”. Quindi, quando i sostenitori del “sì” raccontano che, dopo la revisione/riduzione, il Parlamento italiano sarà più efficiente e funzionerà meglio, raccontano solo una parte della verità: perché il Parlamento farà meglio qualcosa che non deve fare (legiferare) e probabilmente farà peggio quello che invece dovrebbe fare (controllare). Stupisce siano soprattutto i costituzionalisti – non tutti per fortuna – a essere così poco interessati al tema del “controllo” parlamentare sui poteri del governo, ma ognuno interpreta il costituzionalismo come meglio crede.
Nella lista delle ragioni del “sì” troviamo poi un argomento davvero bizzarro. La riduzione dei parlamentari comporterebbe, non si sa bene perché, una migliore selezione della classe politica. Se ho capito bene l’argomento, dovrebbe funzionare pressappoco così: meno posti (seggi) da distribuire, meno possibilità di far accomodare in lista i candidati più improbabili. Qui l’argomento appare proprio campato per aria e funziona, se funziona, soltanto nell’immaginazione di qualche ottimista che finge di non conoscere la realtà dei partiti italiani. Se dall’aria lo riportiamo coi piedi per terra, è evidente che i leader di partito, a parità di legge elettorale, avranno gli stessi incentivi (forse anche maggiori) a portare in parlamento non i migliori, ma il proprio gruppo di fedelissimi pronti a serrare le fila quando la battaglia, soprattutto al Senato, sarà appesa a una manciata di seggi.
In ogni caso, la discussione attorno alla qualità dei futuri rappresentanti si muove su un terreno scivolosissimo che è quello delle ipotesi con variabili che nessuno oggi è in grado di controllare. Meglio restare allora alla realtà dei fatti che derivano dalla riduzione dei parlamentari. E i fatti ci indicano alcune conseguenze ineludibili che avranno un impatto negativo sulla rappresentanza. La prima conseguenza è sul rapporto tra elettori ed eletti, destinato a diventare ancora più evanescente di quanto già non lo sia: un senatore eletto in un ambito territoriale di 192 mila abitanti sarà certamente meno rappresentativo di uno eletto in rappresentanza di oltre 300 mila abitanti. La seconda conseguenza discende direttamente dalla prima: una campagna elettorale in una circoscrizione di 300 mila abitanti costerà certamente di più rispetto alla situazione attuale. E chi pagherà il surplus nei costi della campagna? Il partito? Qualche gruppo di pressione? Il candidato di tasca propria, se potrà permetterselo? Come si vede, anche in questo caso, il meno (parlamentari) rischia di essere foriero del peggio. Infine, la terza conseguenza riguarda la rappresentanza territoriale e non sembra destare grande interesse. Con la riduzione dei parlamentari verrà ridotto anche lo spazio di rappresentanza per i comuni inferiori, i Paesi medio-piccoli e tutto quel reticolo di “aree interne” che faticherà a individuare qualche rappresentante che si faccia carico delle esigenze dei territori periferici. Il paradosso è che nessuno sembra interessarsi oggi di questo problema, salvo poi sorprendersi a ogni tornata elettorale per il riemergere di un cleavage città-campagna (o urbano-rurale) che nasce anche da un deficit di rappresentanza politica. E che domani potrebbe ulteriormente allargarsi.
Ci sono anche altre motivazioni, minori ma più insidiose, suggerite dai fautori del “sì”. Non meritano però di essere discusse perché hanno il velato sapore della minaccia. Ad esempio, quella per cui bisognerebbe approvare la riduzione dei parlamentari per avere in cambio una legge elettorale decente. Come se la seconda dipendesse dalla prima e non fosse invece un diritto dei cittadini in una sana democrazia. Oppure che bisognerebbe fare attenzione a bocciare una modificata insensata della Costituzione per tutelare il parlamento. Confondendo, in questo caso, la classe parlamentare con l’istituzione parlamentare. Di tutte queste argomentazioni ne faremmo francamente a meno.
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