La polemica innescata (cfr. Paolo Mazzoli su Scuola7.it, 26.5.2024 o Franco Lorenzoni su “Internazionale” del 4.6.2024) dall’istituzione da parte del ministro Valditara di una nuova commissione del ministero dell'Istruzione e del merito che avrebbe il compito di “riformare” le Indicazioni nazionali – che attualmente rappresentano la cornice generale, le finalità e gli obiettivi da raggiungere nella scuola primaria (non più quindi “i programmi”) – non fa prevedere nulla di buono. Non si tratta di muovere da posizioni preconcette, ma di considerare quanto è successo nel corso degli anni quando si sono proposte – e si è legiferato in tal senso – innovazioni e nuove disposizioni partendo da elaborazioni fatte da gruppi di persone talora anche competenti di scuola in diversi modi, ma non coinvolti direttamente nelle attività quotidiane richieste dal fare scuola. Per questo, in passato, queste Commissioni si sono valse del contributo di docenti e/o delle loro associazioni, che meglio potevano tener presente i destinatari delle proposte, sia colleghi sia studenti.
Sono diversi gli esempi che si possono richiamare, alcuni dei quali possono essere interessanti per le implicazioni che hanno determinato. Vorrei qui riproporne uno: l’introduzione del Portfolio all’epoca della ministra Letizia Brichetto Moratti.
Avvenne nel 2003, con la legge 53 e l’allegato B del decreto attuativo relativo alle Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella scuola primaria, mediante cui si introdusse il Portfolio delle competenze individuali, che comprendeva una sezione dedicata alla valutazione e un’altra riservata all’orientamento. Dopo aver indicato le ragioni della presenza delle due dimensioni, con funzioni strettamente intrecciate e complementari, l’una relativa all’accertamento e al riconoscimento delle acquisizioni degli alunni, l’altra che consentiva, sulla base di questa consapevolezza, di individuare e sostenere un progressivo progetto esistenziale, l’allegato B proseguiva:
“Anche per questa ragione, la compilazione del Portfolio, oltre che il diretto coinvolgimento del fanciullo, esige la reciproca collaborazione tra famiglia e scuola. Il Portfolio, con annotazioni sia dei docenti, sia dei genitori, sia, se del caso, dei fanciulli, seleziona in modo accurato: materiali prodotti dall’allievo individualmente o in gruppo, capaci di descrivere paradigmaticamente le più spiccate competenze del soggetto…”
Non c’era bisogno di un’approfondita conoscenza del mondo della scuola e dei docenti per immaginare il rifiuto diffuso di accettare che una precisa prerogativa professionale, la valutazione, fosse condivisa con altri, in primo luogo i genitori. Anche oggi, l’ingresso degli educatori del terzo settore nei consigli di classe, utili nel fornire informazioni sugli studenti che vengono da loro accolti per fare attività extra-curricolari, è frutto di una relazione di fiducia costruita nel tempo e non è diffusa in tutte le scuole, anche quando questi educatori svolgono la loro azione professionale integrativa delle proposte educative da rivolgere agli studenti.
All’epoca si determinò così una reazione dei docenti – gioco facile la previsione – per cui alcuni “pionieri” si avventurarono nelle sperimentazioni didattiche, mentre molti opposero resistenza e “aspettarono che passasse quel ministro”.
Di per sé si trattava di una innovazione che conferiva alla concezione della valutazione una dimensione, nuova per quei tempi, promozionale e volta al miglioramento. L’idea infatti di un dossier che raccoglieva con specifici criteri la documentazione di quanto si veniva facendo, a cui contribuivano gli stessi studenti, rappresentava una modalità molto efficace di innescare la riflessione sui propri processi di apprendimento.
L’idea di un dossier che raccoglieva la documentazione di quanto si veniva facendo, e a cui contribuivano gli stessi studenti, rappresentava una modalità molto efficace per riflettere sui propri processi di apprendimento
Malgrado la bontà di quella innovazione ci fu un sostanziale rifiuto: succede così nella scuola, quando si fanno proposte non sostenute da sperimentazioni e consultazioni che promuovano il consenso di gran parte di quel mondo. E non si tratta solo di un fallimento di quel tentativo innovativo, ma della conseguenza che si determina ogni qual volta si fanno proposte che non raggiungono il risultato atteso: si produce un danno, nel senso che su quell’ambito non si può più intervenire per un lasso di tempo piuttosto lungo. Di Portfolio, infatti, per molti anni non si è potuto più parlare a scuola e sono stati considerati “ingenui” (nel migliore dei casi e detto eufemisticamente) da parte di colleghi/e più restii tutti coloro che avevano aderito a quella innovazione. (Per inciso, con i miei studenti universitari invece io l’ho utilizzato per più di vent'anni, essendo convinta della sua utilità e della sua efficacia nell’indurre la necessaria riflessione sul proprio apprendimento e i processi di elaborazione metacognitiva.)
D’altro canto, si può essere perplessi quando si pensa a commissioni molto numerose, come quelle che sono state avviate in passato, ma se si considera che la realizzazione di qualsiasi innovazione legislativa e/o normativa rivolta alla scuola, riguarda in primo luogo 800 mila docenti circa, non si può pensare che bastino le proposte di un gruppo di esperti o lanciare percorsi formativi a persone poco convinte che hanno esperienze professionali diverse e molto articolate, perché quelle innovazioni si realizzino.
In altri termini, si tratta di riconoscere che le scuole sono sistemi “a legami deboli” (cfr. i lavori di Karl E. Weick, Piero Romei e Stefano Zan). Come si sa, le organizzazioni a legami deboli sono caratterizzate da professionisti le cui prestazioni non si inquadrano secondo modalità uniformi ma, godendo di grande autonomia e sensibilità rispetto alle condizioni di erogazione, per aderire a nuove prescrizioni devono avere un convinto coinvolgimento personale; per questo motivo è difficile immaginare che proposte non condivise possano approdare a risultati positivi. Non si tratta di una peculiarità delle scuole perché in modo analogo funzionano gli ospedali in quanto è proprio della professionalità del medico usare ampi margini di flessibilità nella proposta terapeutica, se si vuole garantire l’efficacia di cure personalizzate rispetto al paziente. Ciò non vuol dire che non esistano dei protocolli a cui attenersi, ma sono appunto indicazioni e le variazioni sono sempre consentite, se giustificate sul piano professionale.
In sintesi, il consenso per quanto riguarda il sistema scolastico, rispetto alle disposizioni innovative, va comunque sempre costruito, se si vuole raggiungere l’obiettivo di riformare davvero e non avviare proposte destinate a fallire.
A questo proposito può essere utile richiamare un episodio. Il ministro Francesco Profumo, quando era al ministero della Pubblica istruzione (anche i nomi sono soggetti a variazioni…) raccontava che in Finlandia, per realizzare una riforma del sistema scolastico, si era raggiunto un accordo tra le diverse forze politiche: per un certo numero di anni non si sarebbero fatte variazioni di quella riforma, in attesa di avere dati a disposizione sulla base dei quali prendere decisioni fondate. Una simile procedura, un accordo di fondo tra le forze politiche, sembra una cosa marziana nel nostro Paese, dove i governi si alternano con tempi più brevi, tuttavia io sono stata testimone di qualcosa con tratti di similitudine.
Per un certo numero di anni non si dovrebbero fare variazioni a una riforma scolastica, per avere dati a disposizione in base ai quali prendere decisioni fondate. Ma un simile accordo tra le forze politiche sembra una cosa marziana nel nostro Paese
Ero nella Commissione per la stesura delle Indicazioni nazionali presieduta da Mauro Ceruti. In una seduta, il ministro Giuseppe Fioroni si presentò alla Commissione che aveva fatto, tra le altre, alcune proposte in merito all’insegnamento dell’area storico-geografico-sociale. Il ministro disse che aveva corretto il titolo in “storia” e “geografia”, al che, per la sorpresa che mi aveva suscitato, io intervenni dicendo presso a poco così: “Signor ministro, ormai è ben noto che si tratta di un’area con fitti legami che è preferibile indicare come un ambito di insieme”. E Fioroni rispose: “Professoressa, ma lei non ci dorme la notte se io cambio dicitura?”, Io replicai prontamente: “Certo che no, signor ministro, per molto meno non dormo, quindi…”. E lui, continuando, aggiunse: ”Lo so io come va in Parlamento… Se cambio la dicitura in area storico-geografico-sociale, arriva quello che mi parla dell’educazione a questo…, un altro che vuole un’educazione a quest’altro… Se metto storia e geografia, non se ne parla più”.
Per me questa fu una lezione di politica vera, da parte di un politico che mentre lasciava ai componenti della Commissione il compito di avanzare proposte, stipulava accordi per il mantenimento del risultato dei lavori. E le Indicazioni nazionali furono varate senza particolari conflitti.
Per poter concordare riforme condivise in questa prospettiva, è ovviamente necessario il rispetto di chi la pensa diversamente. Più in generale le politiche rivolte alla scuola dovrebbero essere considerate come la politica estera di un Paese: non si possono mutare a ogni cambio di governo perché la realizzazione di qualsiasi riforma richiede tempo e pertanto la costruzione del consenso è parte della funzione del politico. D’altra parte, quando si presta attenzione alle scuole (al plurale, data l’autonomia costituzionale di cui godono), si dovrebbe sapere che i tempi di realizzazione delle innovazioni sono lunghi proprio per consolidare e diffondere le innovazioni proposte.
Ciò significa anche progettare lo sviluppo del Paese, per tempi che forse neppure si vedranno, ma ciò ha a che fare proprio con la responsabilità che come adulti abbiamo rispetto alle nuove generazioni.
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