Ci si potrebbe kantianamente chiedere, tanto per cominciare, se la pratica della lettura possa essere considerata una scienza. A un simile interrogativo Daniele Garritano risponderebbe negativamente, citando Roland Barthes e chiamando in causa il campo dell’«Inesauribile, dello Spostamento infinito». Come poter infatti rendere conto di ogni altrove cui la lettura rimanda?
Eppure, il suo saggio Un’affollata solitudine. Per una sociologia della lettura, edito da Carocci nella scorsa primavera, può essere considerato il tentativo di dare struttura a un campo di indagine così vasto e personale, rivendicando la possibilità di fornire alle miriadi di esperienze soggettive se non un modello quantomeno dei parametri in cui ritrovarsi. E attraverso i quali sentirsi meno soli. Del resto, il titolo di eco pessoiana richiama in maniera ossimorica questo dualismo proprio dell’attività intellettuale di ogni lettore: qualcosa di intrinsecamente personale che rimanda in vari modi all’abitare una dimensione collettiva. «La solitudine della lettura è il rovescio, non il contrario, di una condizione di affollamento. Si tratta di quella “capacità di essere soli” […] che è la condizione di possibilità per una comunicazione profonda», scrive l’autore nell’introduzione al testo. Questa pratica ha così il dono, che oggigiorno potrebbe essere considerato quasi un privilegio, di connettere l’io individuale con il noi che abita la società, sbaragliando ogni pregiudizio sulla lettura come solipsistica e traducendola piuttosto in un’azione sociale. Un legame oltretutto più solido di quelli che si possono creare attraverso altri canali di comunicazione capaci di unirci al mondo là fuori, come i social media, per fare un esempio non troppo originale ma che può vantare una certa e indiscutibile diffusione.
C’è un’altra premessa che merita spazio: se il leggere è stato spesso considerato un esercizio talmente banale da non meritare di essere preso in considerazione sul serio e il lettore visto come un semplice ricettore passivo di parole scritte da altri, l’autore insiste invece sulla naturalezza di questo passatempo, comprendendo sia il leggere per informarsi sia il leggere come puro piacere, e nel mezzo del suo libro afferma che «leggere è un’azione quotidiana, paragonabile al camminare», riportando anche le parole di Giuseppe Pontiggia quando sosteneva come l’attività tipica del lettore fosse paragonabile a «respirare e vivere». Il bisogno di storie nella vita degli uomini e nel corso dei secoli è, d’altronde, appurato sin dall’epoca preistorica, basti pensare alle prime raffigurazioni parietali nelle grotte che confermano come «l’impulso narrativo sia all’origine dell’umanità».
La lettura ha il dono di connettere l’io individuale con il noi che abita la società, sbaragliando ogni pregiudizio sulla lettura come solipsistica e traducendola piuttosto in un’azione sociale
Voglio riportare l’attenzione su un’immagine tra le tante richiamate da Garritano che definirei emblematica, per la sua poesia unita alla capacità di cogliere una prerogativa del lettore, talmente radicata nella pratica del leggere da passare il più delle volte inosservata. È quel momento, nel corso della lettura, in cui si staccano gli occhi dalle pagine e si rivolge lo sguardo intorno, come ad assimilare con più forza quanto è stato appena letto, creando una connessione con il proprio vissuto e ampliandone così il significato. Il gioco ermeneutico è uno dei tratti distintivi di questa pratica solitaria e favorisce la molteplicità di significati che un brano può assumere di volta in volta.
La possibilità di interpretare un testo soggettivamente crea una relazione originale e inedita tra autore e lettore, tra quanto raccontato e il proprio vissuto: «chi legge partecipa alla costruzione del senso del testo; ma è a sua volta letto dal testo, nel senso che, attraverso il testo, può leggere qualcosa di sé stesso». E la partecipazione del soggetto al racconto non è solo da intendersi in senso astratto: gli scritti di Georges Perec intervengono nello studio di Daniele Garritano a ricordarci quanto il corpo sia coprotagonista, insieme alla mente, in questo esercizio. Lui, Perec, con quel debole per l’«infra-ordinario» e il quotidiano, scriveva che «la lettura rimanda a ciò che innanzi tutto è: una precisa attività del corpo, il movimento di certi muscoli, le diverse organizzazioni delle posizioni del corpo stesso e le decisioni che ne conseguono, le scelte temporali». E a rimarcare la corporeità della pratica intellettuale si dedicò anche il gesuita Michel de Certeau nel suo Invenzione del quotidiano: «le ritirate in qualsiasi luogo di lettura sono accompagnate da gesti inavvertiti, borbottii, tic, stiramenti o rotazioni, rumori insoliti, insomma da un’orchestrazione selvaggia del corpo». Righe che mi piace immaginare accompagnate da alcune delle immagini con cui Bruno Munari corredò l’articolo comparso sulle pagine di «Domus» nel 1944 Uno torna a casa stanco per aver lavorato tutto il giorno e trova una poltrona scomoda: l’esibizione, in questo caso, della (scomoda) partecipazione anima e corpo alla lettura di un quotidiano.
La partecipazione del soggetto al racconto non è solo da intendersi in senso astratto: gli scritti di Georges Perec ci ricordano quanto il corpo sia coprotagonista, insieme alla mente, in questo esercizio
Tornando alla relazione ermeneutica che coinvolge l’individuo e il libro, Garritano ricorda come l’effetto della lettura non sia solo immediato. Le storie infatti sedimentano nell’io lettore ed emergono nel corso del tempo, come vere e proprie esperienze vissute, pronte a dare il proprio contributo nei momenti opportuni. Ossia quando il reale non ci basta in quanto non riesce a fornire una costruzione di senso abbastanza solida da rispondere alle nostre esigenze. E se con Pierre Bourdieu possiamo sottolineare come le narrazioni entrino a far parte del nostro «capitale culturale», l’autore dà voce anche allo psicanalista Didier Anzieu che evoca la «potenza riparatrice» della lettura, paragonandola all’amicizia nell’apporto che può fornire nei momenti più bui della propria esistenza. Nelle sue parole: «La lettura influisce sulla capacità di rendere il mondo abitabile perché aiuta a elaborare le esperienze, nella misura in cui la sua pratica innesca un esercizio di senso del possibile e, insieme, un confronto con una pluralità di orizzonti di senso».
Se viene facile riconoscere la dimensione intima e privata della pratica di lettura, un altro aspetto che sta a cuore all’autore sono, infine, le sue conseguenze in termini di convivenza civile. La sua dimensione sociale infatti riusciva a emergere con più forza in epoche ormai lontane, laddove l’alfabetizzazione era appannaggio di pochi e le comunità si ponevano volontariamente all’ascolto di colui che avrebbe fatto da mediatore tra il testo scritto e il racconto di esso; attualmente, invece, sembra meno immediato riconoscerne la portata. Daniele Garritano per sostenere la sua tesi cita una ricerca dell’antropologa Michèle Petit, pubblicata nel suo Elogio della lettura, edito da Ponte alle Grazie nel 2010, con la quale la studiosa si trovò a constatare come i libri, in particolari contesti di emarginazione, non fossero tanto percepiti quali strumenti funzionali, ad esempio, al successo scolastico ma venissero considerati un «viatico per scoprire o costruire se stessi, per elaborare la loro interiorità e individualità».
Sottraendo la lettura alle rigide categorie sociologiche cui spesso viene sottoposta, la si riporta così alla sua funzione spontanea e immediata che riguarda la «capacità di abitare creativamente la realtà ricorrendo alla dimensione finzionale del “come se”». Garritano in questo senso si pone in continuità con gli studi portati avanti dalla filosofa Martha Nussbaum nel ritenere come l’«immaginazione narrativa» sia in grado di superare ostacoli e barriere, in quanto induce il lettore a «mettere in questione il proprio senso di normalità». «Nella prospettiva della filosofa newyorchese – sottolinea l’autore – lavorare sull’orizzonte relazionale della lettura significa rafforzare principi etici essenziali per la convivenza umana».
Nell’indagine trovano spazio diverse discipline che nel tempo si sono interessate all’esercizio della lettura: si dà voce ai grandi scrittori del passato ma questi si confondono tra le ricerche di filosofi, antropologi, critici letterari e psicanalisti che hanno fatto di questo tema il loro oggetto di studio, visto da diverse angolazioni. E l’approccio sperimentale non lo risparmia neanche l’autore, che dedica il quarto capitolo del libro a una sua ricerca «sul campo», durante la quale aveva raccolto testimonianze di lettori di genere, età e provenienza geografica diversa. Un altro modo di rendersi conto di come il lettore non sia una figura realmente solitaria.
Un’affollata solitudine è un libro adatto a chiunque sia interessato al tema per motivi personali, accademici o professionali; oserei dire altrettanto convintamente che si tratta di un libro, più in generale, per chi ama i libri. Il soggetto in questione, infatti, non solo troverà interessante provare a guardare da una distanza diversa uno dei suoi passatempi prediletti ma si sentirà anche ripetutamente chiamato in causa e osservato, a volte – forse – addirittura spiato. Certo, compreso.
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