Lo devo ammettere, non ho mai letto nessuno dei suoi libri (nemmeno Il nome della rosa!), ma ho comunque avuto modo di conoscerlo durante il mio anno sabbatico a Bologna (2001-2002), quando Umberto Eco divenne uno dei miei principali sostenitori.
Aveva fondato da pochissimo la Scuola Superiore di Studi Umanistici, di cui era direttore, presso l’Università di Bologna, dove organizzò per me sei lezioni in un auditorium da 700 posti. Per ognuno dei sei appuntamenti — che, quell’anno, contribuirono a risollevare le mie finanze — la sala si riempì completamente (e certamente sapeva riempirla!).
Una sera, mentre passeggiavamo per via Zamboni camminando lentamente (credo in direzione di uno degli ottimi ristoranti dove Eco era di casa), Umberto ci raccontò con allegria la sua pluridecennale rivalità nel collezionare libri nei confronti del suo caro amico Roberto Calasso
Ogni volta, a parte una, Eco mi introduceva per poi restarsene seduto sul palco accanto a me mentre parlavo; salvo poi rivolgermi, al momento delle domande da parte del pubblico, una domanda o due, sempre in modo cordiale e intelligente. Quando tutto era finito, lui ed io, più qualche amico suo e qualche amico mio, ce ne andavamo tutti a cena in un ristorante elegante di Bologna. Eco era un bon vivant e un narratore, e così finiva sempre per essere al centro dell’attenzione. Da parte mia non amavo moltissimo quelle cene: il cibo non era particolarmente di mio gusto e la conversazione verteva solo di rado su argomenti a me familiari, ma Eco era un tipo molto socievole, e apprezzavo la sua gentilezza verso di me.
Quell’anno è capitato anche altre volte che ci incontrassimo, e in tutte quelle occasioni lui si è sempre dimostrato molto alla mano e amichevole. Nel complesso abbiamo quindi avuto modo di conoscerci l’un l’altro e penso che ci stimassimo reciprocamente, pur senza essere mai arrivati ad essere intimi (tuttavia dopo poco tempo ci siamo dati del «tu» anziché del «lei», il che, per le persone della nostra generazione, serviva ad instaurare una leggera forma di confidenza).
In occasione di una delle mie lezioni, mentre mi apprestavo a parlare della traduzione in poesia, concentrandomi sulla dolce poesiola «Ma Mignonne» scritta nel 1537 dal poeta francese Clément Marot, Umberto tradusse in italiano le 28 righe di questa piccola opera d’arte in modo elegante e originale, un bel gesto poetico che apprezzai molto e che provo ora a ricambiare riproducendo quella traduzione qui.
C’è poi un altro ricordo, che spesso mi fa sorridere. Una sera, passeggiavamo per via Zamboni (la lunga strada che a Bologna è un po’ la spina dorsale dell'Università), e per qualche motivo saltavamo continuamente dall’italiano al francese (eravamo in tre, la terza persona doveva essere francese). E mentre stavamo camminando lentamente (credo in direzione di uno degli ottimi ristoranti dove Eco era di casa), Umberto ci raccontò con allegria la sua pluridecennale rivalità nel collezionare libri nei confronti del suo caro amico Roberto Calasso, l’intellettuale prolifico ed erudito a capo di Adelphi (che, peraltro, molti anni fa pubblicò alcuni dei miei libri).
Di quella rivalità non ricordo molto (né riuscii a trovare nulla online, ma può darsi che le mie capacità di googling non siano all’altezza: se Google dovesse concedervi il favore di informarvi meglio di quanto abbia fatto con me, fatemelo sapere). Ma ciò che ricordo è che i due «berti» (sia Um- che Ro-) amavano i libri antichi e li collezionavano da una vita, e mi sembra di ricordare per uno dei due la cifra di 30.000 volumi. Non so chi fosse in testa, ma ricordo bene la gioia con cui Umberto descriveva la «gara» con il suo buon amico. Un hobby piuttosto costoso, ma quando si ha il denaro per permetterselo, perché non destinarlo alle cose che si amano maggiormente? In ogni caso, quell’episodio mi colpì, e credo che la mia memoria lo abbia archiviato proprio per poterlo poi recuperare al momento opportuno, il quale, mi pare, sia questo.
L’ultimo aneddoto cui vorrei ritornare con la memoria è la prima volta che incontrai Umberto Eco. Fu a Venezia, con i miei vecchi amici Benedetto e Luisa Scimemi; doveva essere il ’99 o il 2000. Benedetto e Luisa, in una mezz’ora di treno, mi portarono a Venezia dalla loro casa di Padova per ascoltare Eco in qualche elegante teatro veneziano. Ciò che ricordo in modo cristallino è che, tra le molte altre cose, l’uomo imponente lesse ad alta voce un lungo pezzo che aveva scritto, in cui ogni singola parola — fino all’ultima — iniziava con la lettera «p». Perbacco! Prestigiosa prestazione palesemente piacevole pel pubblico! Tutti ridevano.
Eppure per me, anche se parlavo decentemente l'italiano, fu molto frustrante, in parte a causa dell’elevata velocità del suo eloquio, ma probabilmente ancor di più perché il vocabolario italiano che stava declamando era troppo arcano, erudito, e ricercato — decisamente al di fuori della mia portata! Alla fine, quando venni presentato a Eco dai miei amici, scoprii che mi conosceva già. Che bella sorpresa! Un incontro che non dimenticherò tanto facilmente e che fu all’origine del suo invito di trascorrere un anno sabbatico a Bologna.
Riposa in pace, caro Umberto!
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