Da settimane le attenzioni della politica internazionale sono rivolte verso l’Europa orientale, dove è in atto quella che in molti considerano la più acuta crisi dai tempi della Guerra fredda. Dallo scorso novembre, la Russia ha iniziato a concentrare le sue forze armate presso il confine con l’Ucraina: il numero di truppe è stimato intorno alle 130 mila unità, accompagnate da artiglieria, veicoli motorizzati, jet supersonici, batterie antiaeree e supporto logistico. Mosca ha inoltre inviato forze in Bielorussia, Paese alleato, e dispiegato la sua flotta militare nel Mar Nero, ufficialmente per esercitazioni.

L’enorme potenza di fuoco dispiegata dal Cremlino causa forti allarmi nelle capitali occidentali sul rischio di un’imminente invasione dell’Ucraina. Le ambasciate europee e americane a Kiev sono in corso di evacuazione, e anche quella russa ha ridotto il proprio personale. Gli Stati Uniti hanno inviato 3.000 soldati nell'Europa dell’Est, dove la Nato rafforza i suoi gruppi tattici avanzati, mentre diversi Paesi donano armi a Kiev. Il presidente Joe Biden considera un’invasione russa «una chiara possibilità» e fonti dell’intelligence americana ritengono che Mosca potrebbe muovere il primo assalto già in questi giorni.

Ma come si è arrivati a questo punto di tensione? E quali sono i rischi reali di un’invasione da parte russa dell’Ucraina, e di conseguenza di un rinnovato conflitto tra Mosca e l’Occidente?

Le tensioni militari di questi ultimi mesi sono l’atto più recente del conflitto ucraino, che perdura ormai da otto anni e, avendo mietuto più di 14 mila vittime, rappresenta la guerra più sanguinosa in Europa dalla dissoluzione della Jugoslavia ad oggi. Il conflitto ebbe inizio nella crisi di Euromaidan del 2013, le proteste di piazza a Kiev che portarono alla caduta del governo Yanukovych per via della sua contrarietà all’accordo di associazione con l’Ue. Le contro-proteste scoppiate nelle regioni sud-orientali ucraine a maggioranza etnica russa, secondo molti fomentate da infiltrati del Cremlino, portarono all’occupazione della Crimea da parte delle truppe russe, alla successiva annessione della stessa alla Federazione Russa nel marzo del 2014 in seguito a un referendum, e a un conflitto territoriale tra le Repubbliche separatiste di Donetsk e Luhans’k, appoggiate da Mosca, e il governo centrale.

Il presidente russo Vladimir Putin ha tratto vantaggio delle tensioni tra forze governative e minoranze del Sud Est dell’Ucraina e della successiva guerra civile per rafforzare la propria posizione nella regione e per regolare dei conti in sospeso con la Nato. L’espansione verso Est dell’Alleanza Atlantica, con l’ammissione dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia e di Paesi post-sovietici quali le repubbliche baltiche, è stata fonte di preoccupazione per Mosca fin dai primi anni Novanta, quando l’amministrazione Bush promise – seppur non per iscritto – che la Nato non si sarebbe mossa verso est «nemmeno di un pollice». La successiva inclusione dei Paesi orientali nella Nato e nell’Ue è stata vista da Mosca come una promessa rimangiata e una breccia della confidenza che si era creata con l’Occidente, e Putin segnalò già nel 2008 che ogni tentativo di ammettere l’Ucraina alla Nato verrebbe percepito come un atto ostile verso la Russia.

Alla luce dell’evoluzione dei rapporti Nato-Russia, gli eventi di Euromaidan del 2013 che portarono al rovesciamento di Yanukovych e all’ascesa del filoeuropeo Poroshenko possono essere intesi agli occhi del Cremlino come il primo passo verso un’annessione, che avrebbe portato la Nato sui confini della Russia e che pertanto era inammissibile. Oppure, se si vuol essere più cinici, Putin colse gli eventi come un pretesto per riasserire la dominanza russa sullo spazio politico post-sovietico e rimediare a ciò che Putin aveva definito «la più grande catastrofe geopolitica» del XX secolo, cioè il crollo dell’Urss. Cominciando dal riannettere alla Russia la penisola di Crimea che nel 1954 Krusciov diede in dono alla Repubblica Sovietica d’Ucraina, e che ospita la base navale russa di Sebastopoli.

Non si può ignorare la somiglianza di eventi tra il 2013-2014 e il 2021-2022, il che accresce i sospetti che l’accumulo di forze ai confini occidentali sia il preambolo a un’azione militare. Come allora, il Cremlino vuole garanzie sulla postura della Nato verso Est. A dicembre, la Russia ha avanzato due bozze di trattati che contenevano richieste di «garanzie di sicurezza», inclusa una promessa giuridicamente vincolante che l’Ucraina non si sarebbe unita al trattato nordatlantico, nonché una riduzione delle truppe e dell'equipaggiamento militare dell’Alleanza di stanza nell'Europa orientale, minacciando una risposta militare non specificata se tali richieste non fossero state soddisfatte pienamente.

Come nel 2014, inoltre, vi sono minacce all’integrità territoriale dell’Ucraina. Nello scorso luglio, Putin ha pubblicato un articolo in cui descrive russi e ucraini come «un unico popolo» che occupa «lo stesso spazio storico e spirituale». In questi giorni, inoltre, la Duma di Stato russa potrebbe chiedere formalmente a Putin di riconoscere, come parte della Federazione russa, le regioni separatiste di Donetsk e Luhans’k. Nel marzo 2014, fu un simile voto a sancire l’annessione della Crimea alla Russia.

Anche se il Cremlino può sempre fabbricare una scusa per usare la forza, sarebbe difficile renderla credibile

Vi sono però anche delle differenze sostanziali tra i due contesti storici, che rendono la probabilità di invasione imminente più basse. In primo luogo, non è chiaro quale potrebbe essere il casus belli per un’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2014, la protezione delle popolazioni russofile dalla repressione di Kiev fu la scusa per l’infiltrazione di forze militari russe in Crimea prima e per l’aiuto diretto ai separatisti in seguito. Nel tardo 2021, invece, non vi erano notizie di un’offensiva militare da parte di Kiev o di un'intensificazione del conflitto nel Donbas. I dati dell’Armed Conflict Location and Event Data Project (ACLED) mostrano, anzi, una diminuzione della violenza nella regione per il 2020 e 2021. Anche se il Cremlino può sempre fabbricare una scusa per usare la forza, sarebbe difficile renderla credibile, sia per via dell’azione diplomatica dell’Occidente – che da settimane annuncia che la Russia cerca un pretesto per attaccare – sia perché il governo ucraino si sta muovendo in maniera molto cauta, a differenza del marzo scorso quando il presidente Zelensky annunciò la «Strategia per la de-occupazione e reintegrazione della Crimea,» provocando la reazione di Mosca.

In secondo luogo, i costi di un’invasione si preannunciano proibitivi. Anche se gli Usa e la Nato hanno già annunciato che non interverranno militarmente, i Paesi europei e del G7 hanno promesso pubblicamente un’impennata massiccia delle sanzioni economiche nei confronti di Mosca in caso di attacco all’Ucraina. A ciò si aggiungerebbero i costi elevatissimi del cambio di regime e dell’occupazione del territorio ucraino, che potrebbe trascinare le forze russe in una guerriglia di lunga durata, simile a quella degli anni Ottanta in Afghanistan, i cui costi furono una delle cause della dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Sul fronte domestico, un’eventuale invasione non gode del favore della popolazione. Mentre nel 2014 l’intervento russo in Crimea riscosse enorme successo, accrescendo la popolarità di Putin dopo un periodo di declino, un sondaggio dell’opinione pubblica russa pubblicato dal «Washington Post» mostra uno scenario diverso: solo l’8% degli intervistati è favorevole all’invio di truppe in Ucraina. Sebbene la Russia non sia una democrazia, Putin guarda con attenzione ai sondaggi, e non prenderà decisioni impopolari a cuor leggero.

Nonostante questo calcolo di costi e benefici, non è ancora detto che la crisi attuale si risolva in maniera pacifica. È possibile che il desiderio di Putin di ristabilire il controllo diretto di Mosca sull’Ucraina prevalga su considerazioni più razionali

Nonostante questo calcolo di costi e benefici, non è ancora detto che la crisi attuale si risolva in maniera pacifica. È possibile che il desiderio di Putin di ristabilire il controllo diretto di Mosca sull’Ucraina prevalga su considerazioni più razionali. La concentrazione di grandi contingenti al confine aumenta le probabilità di incidenti, i quali possono essere fraintesi come attacchi intenzionali, come nel più classico «dilemma della sicurezza.» Più plausibilmente, però, la Russia sta minacciando l’uso della forza per ottenere garanzie formali da parte dell’Occidente sulla neutralità dell’Ucraina. L’ammissione di Kiev all’Alleanza atlantica sembra oggi meno probabile che mai, come indicato da diversi capi di Stato, ma l’esperienza del passato recente potrebbe portare il Cremlino a chiedere di più in cambio del ritiro delle minacce militari. La campagna mediatica di Mosca, però, è rimasta coerente su un punto: non ci sono piani per l’invasione. È da credere? L’analisi di sopra suggerisce un cauto ottimismo, ma l’incertezza rimane.

 

L’incertezza, quindi, potrebbe perdurare, ma sembra chiaro, almeno, che la crisi in Ucraina avrà delle profonde ramificazioni per la politica internazionale

 

A prescindere dalla conclusione della vicenda, la crisi in Ucraina ha già modificato sostanzialmente alcuni equilibri internazionali. Da un lato, la Russia sembra essere in grado di controllare in maniera significativa lo spazio post-sovietico. Oltre ad aver bloccato, almeno per il momento, l’accesso dell’Ucraina alla Nato e all’Ue, il Cremlino è riuscito a negoziare in maniera bilaterale con i vari Paesi del blocco occidentale, dove può far valere la propria forza in maniera più efficace rispetto a negoziati multilaterali. Dall’altro, la Nato risulta più necessaria che mai nel mondo post-Guerra fredda, dato il risveglio della minaccia orientale, il ché può rafforzare l’unità del blocco.

Allo stesso tempo, però, i Paesi europei hanno mostrato diversi punti di disaccordo, sulla necessità di cancellare il viadotto Nord Stream 2 e sul tipo di aiuti da inviare al governo ucraino. Questi dissapori possono avere degli effetti sull’evoluzione dell’alleanza e sul nuovo concetto strategico, previsto per giugno 2022. Gli Stati Uniti, infine, hanno dovuto rivedere la propria posizione sull’Europa orientale: mentre il piano di Biden per la competizione strategica con la Cina richiederebbe uno spostamento delle risorse fuori dall’Europa, la crisi ucraina ha costretto Washington ad aumentare la quantità di uomini e risorse nella regione. La Cina stessa, un po’ messa in disparte per via della lontananza geografica dal contesto, può trarre giovamento dalle tensioni in Ucraina per rafforzare i rapporti con Mosca e diventarne il partner principale. L’incertezza, quindi, potrebbe perdurare; ciò che sembra chiaro, almeno, è che la crisi in Ucraina avrà profonde ramificazioni per la politica internazionale.