Questo articolo fa parte dello speciale Quirinale 2022
Il momento più alto e delicato della vicenda politica di Francesco Cossiga, settimo presidente della Repubblica italiana, si verifica il 23 luglio dell’anno scorso. Le Camere avviano infatti la discussione del messaggio sulle riforme istituzionali che il capo dello Stato aveva fatto pervenire in precedenza ai presidenti dei due rami del Parlamento. Le 86 cartelle del messaggio presidenziale non costituivano affatto un contributo generico a un dibattito sul quale si fosse determinata una sostanziale identità di intenti fra la classe politica e il presidente della Repubblica. Anzi: il modo in cui il messaggio era stato annunciato e preparato testimoniava di un conflitto che si era esasperato nel tempo; larghe componenti del Parlamento non nascondevano una profonda irritazione per l’intervento del capo dello Stato in materia istituzionale. Il messaggio di Cossiga veniva colto da più parti come un tentativo di forzare la situazione, che si inseriva all’interno di un conflitto politico-istituzionale che minacciava di alterare significativamente l’equilibrio politico su cui si è retto il Paese nell’ultimo trentennio, e cercava di indirizzarlo verso soluzioni politicamente non neutre.
Dopo un lungo periodo in cui Cossiga si era tenuto nell’ambito di una interpretazione autenticamente notarile del suo ruolo, proponendo rari interventi che avevano generalmente riscosso un’approvazione diffusa (anche se avevano riguardato casi di conflitto potenzialmente intenso, come quando il capo dello Stato aveva rivendicato il potere di stabilire l’ordine del giorno del Csm) gli ultimi due anni del suo mandato sono stati segnati da una crescente e non controllabile quantità di esternazioni. A tutt’oggi risulta infondato sostenere che il capo dello Stato abbia lacerato la carta costituzionale, o che abbia determinato le condizioni per individuare ragionevolmente la possibilità di una sua incriminazione. Anche la richiesta di impeachment da parte del Pds sembra scambiare le ragioni costituzionali con quelle politiche. Perché il problema, o se si vuole il caso Cossiga, non appartiene tanto alle pagine del diritto costituzionale quanto al regno delle convenzioni politiche che hanno regolato e ancora regolano l’attività dei partiti e il funzionamento del sistema politico.
Imputare al capo dello Stato un uso improprio dei poteri presidenziali, accusarlo di propensioni presidenzialiste e plebiscitarie, censurare lo stile che il Quirinale ha assunto rispetto a formazioni politiche e singole persone può essere plausibile soltanto se si intende cogliere il potenziale politico di un’azione che è penetrata nel cuore dei dilemmi politici della prima Repubblica; risulta invece sfasato se si vuole perseguire la sconfitta politica del presidente attraverso la lettera della Costituzione.
Non c’è stata una sola esperienza presidenziale che non si sia definita in rapporto alle condizioni politiche in cui si svolgeva. L’ultima parte del settennato di Cossiga si è dipanata in un’arena politica attraversata da eccezionali eventi storici, che hanno gettato lunghi riflessi sulla scena politica. Prima di giudicare il modo in cui il capo dello Stato è sceso dal Colle per gettarsi in una mischia quotidiana, gli effetti che ha provocato nel sistema politico, i risultati che ha ottenuto, vale la pena di segnalare che l’astrattezza della legge fondamentale non consente di determinare di per sé standard obiettivi di comportamento ai quali rapportare il comportamento del Quirinale.Nella vicenda dell’Italia repubblicana, i presidenti che si sono succeduti dal ’46 in poi hanno conferito una specifica e personale coloritura ai loro atti; hanno interpretato i loro poteri in modo assai dissimile
Nella vicenda dell’Italia repubblicana, i presidenti che si sono succeduti dal ’46 in poi hanno conferito una specifica e personale coloritura ai loro atti; hanno interpretato i loro poteri in modo assai dissimile; talvolta, il giudizio che se ne è dato durante il loro mandato è stato poi corretto da valutazioni successive.
De Nicola e l’unità nazionale. Quando Enrico De Nicola fu eletto capo «provvisorio» dello Stato, il 28 giugno del 1946, era ben chiaro che egli costituiva una figura di raccordo e di compromesso. Proposta da Palmiro Togliatti, la sua candidatura fissava un momento irripetibile, nel quale gli elementi di conflitto istituzionale e politico dovevano essere mantenuti all’interno del processo di formazione dello Stato repubblicano senza che ne provocassero la disintegrazione. Il referendum istituzionale si era concluso con la vittoria di misura della Repubblica, facendo affiorare una vistosa spaccatura fra il Meridione monarchico e il Nord repubblicano. Se alle spalle c’era l’esperienza unitaria dei Cln e al presente l’abbraccio politico della Costituente, in prospettiva non era difficile immaginare e prevedere l’esaurirsi fisiologico del patto nazionale fra i partiti che era servito per fondare la nuova entità statale.
De Nicola, monarchico e meridionale, rappresentava perfettamente le istanze di pacificazione. Anzi, proprio la «provvisorietà» a pieno titolo del suo mandato è sancita non solo dalla definizione formale della sua carica ma soprattutto dall’intento che egli volle esprimere esplicitamente. Nella visione di De Nicola l’obiettivo principale era di impersonare a tutto tondo una figura di garanzia politico-istituzionale, che basava la sua concezione dell’Italia di quel momento sulla necessità di superare le lacerazioni subite dal Paese. Fascismo e antifascismo, incerta transizione dalla monarchia alla Repubblica, collocazione del Paese con un’identità stabilizzata nel consesso internazionale dopo la guerra: a De Nicola forse sfuggiva la drammaticità politica di un momento in cui il prodigio dell’unità nazionale conteneva in sé tutti gli elementi che l’avrebbero incrinata. La funzione di garante super partes della «infrangibile unione» degli italiani era consentita da un congiurare irripetibile di contingenze, non tanto dal raggiungimento di un assetto politico-istituzionale consolidato. Giuridicamente ineccepibile e storicamente comprensibile, la tensione unitaria di De Nicola appare oggi un atteggiamento politicamente «a termine», destinato a essere liquidato dalle vicende successive.
Il potere di Einaudi. Allorché Luigi Einaudi, meno di due anni dopo, venne eletto al Quirinale, l’orizzonte politico era radicalmente mutato. Il clima è quello dell’acuirsi della tensione fra Usa e Urss, che vede come riflesso italiano la rottura degasperiana del patto di unità nazionale con il Partito comunista, la scissione di Palazzo Barberini, la storica battaglia elettorale del 18 aprile. Anche il «Presidente Imparziale», come Dossetti definì De Nicola criticandone l’«eccesso di formalismo», sarebbe dovuto entrare nell’immediato scontro politico. De Nicola, prima del 18 aprile, aveva lasciato capire che avrebbe affidato il ruolo di capo del governo secondo il rigido criterio di scegliere l’esponente del partito che avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta, evitando considerazioni suggerite dalla necessità di assicurare comunque al Paese una guida capace di garantirne la stabilità.
Una nuova candidatura di De Nicola poteva quindi apparire, e apparve, sostanzialmente astorica. Luigi Einaudi divenne il capo dello Stato intrinseco a una dinamica politica che era esplosa in tutte le sue implicazioni, in cui il conflitto politico non era più mediato da vincoli unitari, e non è un caso che la sua elezione sia avvenuta mostrando una profonda spaccatura fra i candidati (Einaudi fu eletto con 518 voti, mentre Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre, ebbe 320 voti).
Contrariamente a uno stereotipo che si è affermato con una certa facilità, Leopoldo Elia ha scritto che la presidenza Einaudi non consistette affatto in una funzione semplicemente notarile. È certo che il suo mandato ebbe una funzione centrale nel consolidamento degli equilibri istituzionali dell’età del centrismo, e sicuramente la sua azione si avvalse della stabilità politica del centrismo garantita dalla leadership di De Gasperi. Ma sarebbe un errore considerarlo semplicemente come l’autore del sigillo istituzionale su una fase politica. Probabilmente Einaudi aveva intuito che, in quanto istituzione, il presidente della Repubblica non poteva restare nelle indeterminatezze configurate dai costituenti. Occorreva costruirne i poteri, consolidarli, affermando la specificità di un ruolo che non era affatto di pura rappresentanza. Einaudi riuscì quindi a conquistare spazi precisi per l’azione presidenziale (per ciò che riguarda in particolare la nomina dei giudici costituzionali e dei senatori a vita, la scelta del presidente del consiglio, lo scioglimento delle Camere).
Uno degli aspetti più politicamente intelligenti con cui il grande intellettuale liberale contribuì alla fondazione dei poteri presidenziali fu determinato dall’uso della potestà di rinvio delle leggi alle Camere con messaggio motivato, secondo l’articolo 74 della Costituzione. Di fatto, Einaudi fece un moderatissimo uso di questa risorsa, e preferì sempre ricorrere alla facoltà di autorizzazione preventiva. Ma attraverso l’uso sapiente di queste due risorse, garantite anche dall’eccezionale prestigio personale di cui godeva, riuscì a porre in atto un rapporto diretto con il governo: mentre da una parte tutelava l’esecutivo dalla possibilità che disegni di legge governativi fossero sottoposti in Parlamento a pratiche distorsive, dall’altra instaurava una sintonia profonda fra le due istituzioni.
Veniva a crearsi in sostanza qualcosa che potremmo associare a forme monocratiche, o perlomeno non conflittuali, omogenee di governo. Forme che erano dovute inevitabilmente a caratterizzazioni personali, individuali, non automaticamente ripetibili, ma che rivelavano alla politica e ai partiti l’ampiezza e la potenzialità del ruolo presidenziale. E che, grazie alla sintonia con l’esecutivo, restavano all’interno di un circuito politico limitato, non potevano mai diventare occasione di conflitto politico parlamentare.
L’atto forse più significativo della presidenza Einaudi, quello che chiarisce meglio come il primo presidente della Repubblica cercava di riempire di contenuti il sacco politicamente vuoto della sua carica, si ebbe all’indomani delle elezioni del 1953, quando la perdita di voti subita dalla Dc impedì che scattasse il meccanismo maggioritario della cosiddetta «legge truffa». Si veniva a configurare una situazione inedita, che a un tratto mostrava i limiti politici dell’equilibrio centrista, l’emergere di una litigiosità interna alla maggioranza, l’assenza di una persegui bile prospettiva di governabilità.
In queste condizioni, dopo la rinuncia di Piccioni, Einaudi conferì l’incarico di formare il nuovo governo a Pella, senza nemmeno procedere a nuove consultazioni con i partiti. Il nuovo incaricato, sotto il profilo delle ispirazioni di politica economica, era un einaudiano convinto; in politica, era la quintessenza del centrismo. La creazione di un «asse» fra il presidente della Repubblica e il capo del governo rappresentava la sintesi della vocazione maggioritaria di Einaudi; il fatto che Pella potesse essere «imposto» a una Dc recalcitrante, che accettò l’imposizione presidenziale solo perché soffriva di una grave situazione di stalla al suo interno, chiarisce da un lato il consolidarsi della sfera del potere del presidente, e dall’altro che questo potere era pur sempre condizionato dalla logica interna al sistema politico. Di fatto, tuttavia, l’azione einaudiana poneva la presidenza della Repubblica all’interno della dialettica politica, stabilendone il ruolo come attore protagonista. Era una posizione facilmente suscettibile di sviluppi ulteriori.
Gronchi, le avventure di un presidente. Il tonfo elettorale della Dc nel 1953, l’articolarsi per correnti strutturate del partito, l’incertezza sulle soluzioni politiche di lungo periodo dopo l’emersione della crisi della formula quadri partita spiegano la debolezza degli esecutivi post-degasperiani. La spaccatura democristiana fra componenti moderate e uno schieramento che guardava a sinistra descrive bene le ragioni che portarono al manifestarsi di una leadership nuova, quella di Amintore Fanfani, proiettata verso l’obiettivo di riguadagnare una forte egemonia politica. Ciò che ancora mancava era una funzione istituzionale capace di coagulare nuovi equilibri politici ed eventualmente di assorbirne i contraccolpi. Giovanni Gronchi aveva indicato nel 1954 come compito storico della Dc quello di «attrarre nuove forze nell’orbita della politica democratica e dello Stato repubblicano», suscitando l’immediato interesse della frangia autonomista del Partito socialista.
Gronchi fu eletto presidente della Repubblica il 29 aprile del 1955, al quarto scrutinio. Non era il candidato di prima scelta della Dc. Lo aveva votato uno schieramento caotico, che raccoglieva socialisti e comunisti, pattuglie di parlamentari democristiani di ogni corrente, molti monarchici, non pochi missini. Si trattava di un rassemblement dal sentore vagamente peronista, privo di qualsiasi identità o programma politico. Il nuovo presidente avrebbe dovuto cercare la propria legittimazione sulla base della propria iniziativa. Il suo slancio avrebbe portato elementi di dinamismo arbitrario in una situazione contraddistinta da una straordinaria incertezza.
Antiatlantico in politica estera, non indenne da un certo giustizialismo in politica interna, incline ad attribuire al ruolo del capo dello Stato una funzione di indirizzo e orientamento della vita politica come interprete di una volontà o di un interesse generale che non si esauriva in Parlamento e nella lotta fra i partiti, Gronchi era il candidato ideale a intervenire direttamente in una fase politica confusa. «L’ansia di rinnovamento», «il nuovo che preme», «l’anima popolare» della società italiana costituivano alcuni fra i temi che egli si candidava a tradurre in azione politica, rivendicando l’autonomia di una posizione che relativizzava il funzionamento istituzionale della macchina politica e che conferiva tendenzialmente al capo dello Stato un ruolo personalizzato (non a caso, le ripetute «esternazioni» e le «esorbitanze» di Gronchi furono immediatamente stigmatizzate dai suoi avversari).
La vocazione presidenzialista di Gronchi emerse con chiarezza in politica estera, cioè nell’area di intervento in cui più facilmente poteva essere evitato il confronto con i partiti e con il governo. Forte di un atteggiamento sostanzialmente terzomondista, filoarabo, propenso a una specie di equidistanza dai blocchi americano e sovietico (che in quel momento era simmetrico alle posizioni di Amintore Fanfani e della mano economica della Dc, Enrico Mattei), il presidente fu protagonista di una serie di episodi che suscitarono allarme e preoccupazioni tra le forze politiche: per esempio, nel 1955 convocò ministri e ambasciatori al Quirinale per discutere problemi internazionali; l’anno dopo elaborò e sottopose al Cremlino, all’insaputa del governo e degli alleati, un piano ufficioso per la riunificazione di una Germania «neutralizzata». Durante la crisi di Suez prese posizione contro gli anglo-francesi e a favore degli egiziani; nel 1959 entrò in collisione con francesi e tedeschi, contrari alla trattativa che si stava delineando fra Usa e Urss su Berlino; nel 1960, una fallimentare visita a Mosca, segnata nelle cronache da uno storico e comico litigio con Kruscev, provocò la caduta del governo.Nel corso dei diversi settennati, ciascun capo dello Stato ha interpretato in maniera diversa il proprio ruolo nei confronti dei vari esecutivi e delle crisi di governo che via via si susseguivano
Ma fu ovviamente in politica interna che si sentì in maggiore misura l’effetto del presidenzialismo gronchiano. Nel momento in cui il Quirinale entrava nella lotta politica per imprimere il proprio marchio sul governo, l’azione presidenziale diveniva un fortissimo elemento politico, capace di influenzare e modificare la situazione. Gronchi era favorevole all’apertura a sinistra, cioè al coinvolgimento del Partito socialista nell’area del governo, e proprio il tentativo di forzare gli equilibri in questa direzione fu all’origine di uno degli episodi più catastrofici del suo mandato, quello che è passato alla storia come il caso Tambroni.
Nel 1960, durante una crisi di governo determinata dal ritiro dei liberali, il capo dello Stato affidò a Tambroni l’incarico di formare un monocolore democristiano che procedesse a una cauta apertura verso i socialisti. Tuttavia alla Camera il governo Tambroni ottenne solo la fiducia dei missini. Gronchi respinse l’immediato ritiro del governo, rinviandolo al Senato. A quel punto, come è noto, esplose la piazza: si ebbero gravi moti in diverse città, morti e feriti. Solo dopo la caduta di Tambroni la situazione politica rientrò nei binari della normalità.
In definitiva un bilancio del settennato di Gronchi deve tenere da un lato dell’intenso impulso dato dal Quirinale al completamento dell’assetto costituzionale dello Stato (ad esempio con l’attuazione della Corte costituzionale); dall’altro del tentativo di alterare i contorni della presidenza della Repubblica trasformandola da polo costituzionale in punto di riferimento politico, sovrapponendo il proprio attivismo all’azione del governo e non di rado entrando in conflitto con esso. L’assenza della sintonia con il governo di cui aveva goduto Einaudi, vale a dire di una solida base politico-programmatica in cui essere inserito, obbligava il presidente della Repubblica a formarsi una piattaforma politica personale, cercando e accettando gli appoggi delle parti che volevano offrirgliela. Ma alla resa dei conti la presidenza Gronchi appare come un lato complementare al disfacimento degli equilibri centristi, il riflesso di un quadro politico che doveva trovare un punto di equilibrio più avanzato ma non aveva ancora interiorizzato una strategia coerente e coerentemente perseguibile.
Segni: un contrappeso all’apertura a sinistra. Fra i molti giochi degli equivoci che sono stati inscenati nell’Italia contemporanea, l’esperienza del centrosinistra è per certi aspetti emblematica. La Democrazia cristiana pensava di utilizzare i socialisti per stabilizzare una situazione politica difficile; il Partito socialista era convinto che fosse possibile erodere il sistema capitalistico dall’interno, attuando quelle riforme «di struttura» che avrebbero condotto a un radicale ridisegno sociale. In ogni caso, un programma avanzato di riforme non era proponibile senza resistenze. L’esordio dei socialisti nell’area della maggioranza, nel 1962, avviene sulla scia di un programma che contemplava la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma della scuola; occorreva, sul lato opposto, una garanzia istituzionale che rassicurasse il fronte moderato.
L’elezione di Antonio Segni, avvenuta il 6 maggio del 1962, dopo nove scrutini, con una stretta maggioranza di centrodestra, venne subito percepita come la polizza d’assicurazione siglata dai dorotei rispetto ai possibili rischi dell’apertura a sinistra. A differenza di Gronchi, Segni godeva di una forte, stringente legittimazione politica; il paradosso però era che il tipo di legittimazione che gli era stata conferita collideva nettamente con il programma politico che era stato redatto in sede parlamentare e di governo. Lo Stato, il vertice dell’assetto istituzionale, si restringeva così a una specie di contro potere. Segni si segnalò in particolare per la venatura «giuridica» che conferì al proprio ruolo, intervenendo con assiduità alle sedute del Csm, raddoppiando i casi di rinvio delle leggi alle Camere, accentuando gli interventi sul governo per influenzare i dispositivi delle riforme caratterizzanti la politica di centrosinistra.
Anche se la prematura interruzione per malattia del mandato di Segni non consente di configurare con pienezza il suo ruolo, si può se non altro dire che la sua è stata la presidenza di un moderato, che concepiva il rapporto fra gli ordinamenti come qualcosa da conservare e da stabilizzare, non da innovare. Se il dinamismo di Gronchi si era trasferito anche nell’attuazione dell’assetto costituzionale, Segni mostrò di concepire l’apparato istituzionale e legislativo del nostro Paese come qualcosa di assodato, che necessitava eventualmente di consolidamenti, non di adeguamenti a una realtà in cambiamento. Alla sua preferenza per le relazioni con gli apparati ufficiali dello Stato e le burocrazie militari anziché per il contatto con una società italiana che cercava con fatica ma anche con un certo tratto di originalità una sua via allo sviluppo, può forse essere fatta risalire la pagina tuttora indecifrata di quel «rumore di sciabole» che si avvertì con il «Piano Solo» del generale De Lorenzo: a cui è difficile oggi attribuire una volontà esplicita di determinare una svolta autoritaria ma di cui non si può trascurare il carattere di ammonizione rivolta alla politica delle riforme.
Saragat, il garante del centrosinistra. Dopo avere fallito l’elezione nel 1962, il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat, «il più liberale dei marxisti, l’unico marxista dei liberali» (come l’aveva definito in una dedica Carlo Rosselli nel 1930), fu eletto al Quirinale il 28 dicembre del 1964. Occorsero ventuno scrutini. È sufficiente questo dato per chiarire l’importanza che i partiti attribuivano all’elezione del nuovo capo dello Stato. I prezzi pagati per giungere a un accordo sono testimoniati dalle 150 schede bianche democristiane nello scrutinio decisivo e dal determinante voto comunista, a cui Saragat aveva mandato segnali. I quindici giorni di intrighi e contrattazioni portarono il «Times» a commentare: «Il candidato più idoneo è stato eletto nel peggiore dei modi».
Tuttavia, nonostante che per un momento si fosse pensato che l’elezione del maggiore esponente socialdemocratico potesse preludere a qualche forma di coinvolgimento tattico del Pci, Saragat si rivelò poi per tutto il suo settennato come il promotore e il tutore della formula di centrosinistra. Il congegno istituzionale adottato da Saragat come garante politico del governo quadripartito fu identificato dai mandati «vincolati» conferiti per quattro volte, cioè incarichi per la formazione di un governo subordinati al vincolo del rispetto dell’equilibrio di centrosinistra.
Ci furono critiche anche aspre per questo atteggiamento del Quirinale, e una parte consistente dei costituzionalisti lo giudicano non conforme al dettato costituzionale. Tuttavia risulta piuttosto incongruo valutare l’azione di Saragat in senso astratto. Egli si muoveva in politica estera sul filo di un coerente e determinatissimo atlantismo (fino a essere accusato di surrogare la politica estera del governo), e all’interno come garante di una stagione politica che andava verso l’esaurimento. Il sostegno esplicito e forse non esattamente protocollare all’unificazione socialista nel 1966, e il tentativo di costringere la governabilità nelle maglie sempre più allentate del centrosinistra, costituiscono la riprova più emblematica che ogni capo dello Stato è figlio della propria stagione politica. Espressione del centrosinistra, Saragat ne fu l’anima politico-istituzionale. Probabilmente non c’è un’altra esperienza al Quirinale di così completa identificazione fra equilibri politici e ruolo istituzionale.
Leone, notaio e vittima. La vigilia di Natale del 1971, al ventitreesimo scrutinio, Giovanni Leone venne eletto dal Parlamento sulla base di una maggioranza di centrodestra. Era un notabile democristiano estraneo al gioco delle correnti, moderato, anticomunista. La sua elezione, dopo un’ecatombe di candidature, fu percepita come il risultato di uno scontro politico che aveva come posta la questione comunista, e cioè la praticabilità di una strategia politica che configurasse l’utilizzabilità governativa del Pci. La vittoria del fronte moderato apriva il gioco costituendo una posizione di forza; ma nello stesso tempo imprigionava Leone in una caratterizzazione politica che si sarebbe rivelata esiziale per lui quando le condizioni politiche degli anni Settanta sarebbero entrati in turbolenza.
Ciò nonostante, risulta difficile contestare la correttezza istituzionale di Leone. Attestato sul crinale della non interferenza rispetto ai partiti, Leone può essere sottoposto a critiche soltanto per pochi episodi, e tutti controversi, suscettibili cioè anche di un’interpretazione a lui favorevole. Ad esempio, gli scioglimenti delle Camere a cui ha provveduto, nel 1972 e nel 1976, erano casi esemplari derivanti dall’impossibilità di formare una maggioranza. Diede, in sostanza, un’interpretazione del proprio ruolo caratterizzata da una netta impostazione di precisione giuridica e di coerenza procedurale. Nel settennato incompiuto di Leone, il caso che ha acceso le maggiori discussioni è quello relativo al messaggio inviato alle Camere nell’ottobre del 1975. Il presidente sottolineava l’esigenza di procedere all’attuazione integrale della Costituzione e di riformare l’organizzazione pubblica, per dare strumenti adeguati alla soluzione della crisi politica. Si trattava di un messaggio ambizioso, che investiva tanto la struttura politico-istituzionale quanto la funzionalità degli apparati burocratici e non si fermava di fronte alla discussione di provvedimenti atti a favorire la soluzione dei problemi economici del Paese. Venne sottolineata però soprattutto la parte che si riferiva alla regolamentazione costituzionale del diritto di sciopero, indicando così alla censura politica un presunto aspetto conservatore delle posizioni del capo dello Stato, e dopo alcuni tentennamenti il messaggio fu archiviato senza discussione parlamentare.
Piuttosto, sembra evidente che l’unico presidente della Repubblica costretto alle dimissioni, pochissimi mesi prima della scadenza del settennato, sia stato travolto dal rapido alterarsi delle condizioni politiche che ne avevano favorito l’elezione. Portato al Quirinale come espressione di uno schieramento che escludeva programmaticamente qualsiasi coinvolgimento dei comunisti nell’area del governo, Leone vedeva la sua posizione indebolirsi man mano che sulla scia delle grandi discussioni pubbliche del decennio (come il divorzio) e di una situazione sociale segnata da conflitti sempre più aspri, la questione comunista guadagnava attualità e pesantezza politica. A questo punto anche l’estraneità del capo dello Stato rispetto a correnti e a gruppi di potere diventava un fattore di debolezza. Se si ripensa agli ultimi mesi della presidenza Leone, allo scandalo Lockheed, al dramma politico del rapimento di Aldo Moro (con il capo dello Stato che scelse una posizione trattativista), al «ritiro della fiducia» da parte dei partiti e dell’opinione pubblica, viene il dubbio che in un frangente di estrema drammatizzazione della vita politica, in un clima di sospetto e tragedia, proprio la caratterizzazione «notarile» voluta da Leone, la distanza frapposta fra il Colle e la dinamica politica (e anche la stessa acquiescenza verso il partito di maggioranza relativa), abbiano contribuito a rendere più facile il sacrificio della posizione più esposta. Se si accetta la metafora secondo cui in realtà la vicenda repubblicana non ha mai visto al Quirinale un presidente «notaio», bensì giocatori politici, risulta più facile comprendere l’isolamento di Leone, la sua drammatica assenza di punti d’appoggio. Quando sulla scacchiera si succede un vortice di arroccamenti, attacchi, manovre che sembrano non condurre da nessuna parte, può risultare razionale produrre il sacrificio, reale e simbolico, del Re che non conta nulla.
Pertini o della popolarità. Il problema più complesso nell’affrontare la presidenza di Sandro Pertini dipende dalla difficoltà di districare il presidente dal protagonista. L’aspetto più immediato del settennato del vecchio socialista populista eroe della Resistenza e romanticamente legato all’idea dell’unità delle sinistre è infatti l’eccezionale grado di esposizione pubblica che egli diede al Quirinale. Pertini fu eletto il 7 luglio del 1978, dopo sedici turni di voto, raccogliendo una maggioranza altissima, 832 voti su 995, tutti quelli delle forze politiche comprese in ciò che allora veniva definito «arco costituzionale». La sua elezione, che aveva sullo sfondo il governo di solidarietà nazionale e una fase virulenta dell’attacco terroristico allo Stato, fu accolta dall’opinione pubblica come un netto distacco dal passato. Il nuovo presidente della Repubblica era un «uomo solo», svincolato perfino dal suo stesso partito (come avrebbe dimostrato in talune polemiche con i «colonnelli» del Psi rinnovato dopo il Midas), perfettamente consapevole della potenza simbolica assunta dalla sua figura rispetto a vastissime fasce di cittadini: si instaurò ben presto una sorta di sovra-legittimazione popolare del presidente, qualcosa di simile a una impronta plebiscitaria stabilita informalmente, attraverso gli organi di comunicazione, le dichiarazioni, le interviste. In un articolo feroce e magistrale, pubblicato nel giugno del 1985, mentre si apriva la corsa al Quirinale che avrebbe portato sul Colle Francesco Cossiga, Indro Montanelli scrisse che la sua gestione si chiudeva in largo attivo, avendo riportato al Quirinale un buon «profumo di bucato». Ma poi procedeva alla demolizione del monumento Pertini, delle sue debolezze culturali: «un frullato di parole maiuscole, Popolo, Umanità, Libertà, Giustizia, Resistenza»; di quel fiuto per gli umori popolari che veniva così sintetizzato: «Non ha mai sbagliato una lacrima, sebbene ne abbia versate quante nessuno prima di lui … Ha maneggiato più bare di un becchino e più culle di una balia». Per concludere: «Egli rimarrà indelebile nella nostra memoria e nel nostro cuore come il presidente che ha incarnato al meglio il peggio degli italiani».
Forse questo è nient’altro che folklore. Ma il carisma di Pertini, insieme alla sua scarsa considerazione per il lato protocollare e procedurale dei suoi compiti, ha dato luogo a critiche piuttosto risentite su temi di un consistente rilievo costituzionale. In particolare ci sono alcuni episodi in cui l’esercizio dei poteri presidenziali è apparso insidiosamente vicino ai limiti consentiti. Il primo caso riguarda il conferimento dell’incarico di formare il governo ad Andreotti, nel marzo 1979, in cui convinse il leader democristiano ad accettare l’ipotesi di nominare anche due vicepresidenti del consiglio (La Malfa e Saragat, convocati al Quirinale insieme al presidente incaricato). Questo intervento apparve immediatamente discutibile, in quanto entrava nel vivo della formula politica del governo e della composizione dell’esecutivo, ponendosi in attrito con le competenze che secondo il dettato costituzionale spettano al presidente del consiglio.
D’altra parte Pertini non nascose mai la propria tendenza a stendere la propria tutela e la propria benevolenza sul governo. Anzi, quando durante il governo Spadolini si assistette a un violento scontro fra il ministro del tesoro Andreatta e i socialisti, il capo dello Stato non esitò a intervenire censurando violentemente il comportamento del ministro («disgustoso»), in modo da indurre il Psi a ritirare la minaccia di dimissioni dal governo.
Quello che è stato registrato come il caso più criticabile nell’operato di Pertini è comunque il comportamento tenuto durante un aspro conflitto sindacale, lo sciopero dei controllori di volo (ufficiali e sottufficiali dell’aeronautica) nel novembre 1979. Il capo dello Stato accettò di incontrare il comitato di coordinamento dell’aviazione, alla presenza del presidente del consiglio Cossiga e del ministro della difesa Ruffini, inducendo il governo ad accettare una bozza di accordo preparata dal comitato di coordinamento. Non era congrua la sede per la trattativa, e soprattutto emerse in questa anomala mediazione la propensione di Pertini a un attivismo che sembrava scavalcare le prerogative del governo.
Ma riesce arduo descrivere in breve l’interventismo del Quirinale in questo settennato: Pertini esprimeva opinioni, inviti e suggerimenti su qualsiasi tema, anche quelli che avrebbero trovato sede appropriata soltanto nell’ambito del governo o del Parlamento (l’elenco sarebbe lunghissimo: critica il ministro israeliano Sharon, denuncia le speculazioni nel Belice, riceve al Quirinale Arafat e si dice favorevole a uno Stato palestinese, indica in centrali internazionali la matrice del terrorismo, telegrafa al giudice Calogero complimentandosi per l’incriminazione di Toni Negri, piange la morte di Berlinguer «compagno di lotta»…).
Se sul fronte del consenso popolare non ci furono défaillances nel livello di popolarità di Pertini, che anzi andò continuamente crescendo (Ceronetti coniò il termine di «papagiovannificazione» per ironizzare sul pertinismo galoppante, sul «culto della pertinità»), ed è difficile negare la funzione di rilegittimazione delle istituzioni che egli rivestì, sotto il profilo costituzionale le critiche lentamente si stratificarono e si consolidarono: il presidenzialismo «strisciante» che poté essere imputato al capo dello Stato per i suoi strappi procedurali lasciava tuttavia il campo a una convinzione condivisa da tutti: che Pertini era inimitabile. Il prossimo inquilino del Colle avrebbe ristabilito la norma, non avrebbe certamente ripetuto il diluvio di eccezioni su cui si era costruito il racconto popolare del «presidente più amato dagli italiani».
Le due facce di Cossiga. Francesco Cossiga venne eletto il 24 giugno, al primo turno, come era accaduto solo per De Nicola, con una maggioranza amplissima. Doveva risultare nelle previsioni il simbolo di un certo polveroso e rigoroso grigiore istituzionale, e per cinque anni ha interpretato infatti la parte del presidente giurista, assiduo avvocato della correttezza dell’andamento istituzionale, convinto della possibilità di ricondurre il conflitto politico entro la struttura costituzionale esistente; alla fine, quando si è convinto che occorreva predisporre un assetto istituzionale diverso, si è rivelato come un principio di divisione assolutamente inedito. Trascuriamo in questa sede le condizioni tecniche in cui si è sviluppato il suo radicale mutamento di atteggiamenti: vale a dire che prescindiamo dall’eventualità che intorno alla sua posizione si siano concentrate manovre affaristico-politiche per costringerlo alle dimissioni, come pure dalle polemiche che hanno coinvolto il suo nome per ciò che riguarda il caso Gladio, il Piano Solo ecc. Per centrare il cuore del problema, non prendiamo in considerazione neppure il conflitto più significativo sotto il profilo istituzionale, nel quale il presidente è intervenuto da protagonista (e mantenendo fin dall’inizio del suo mandato una linea precisa e coerente), quello con il Consiglio superiore della magistratura: sul quale probabilmente Cossiga avrebbe avuto la possibilità di guadagnare un’eccezionale posta politica e che invece si è rivelato come un caso esemplare di una sua certa incapacità di praticare una strategia di alleanze, di aprire fronti tattici, di cercare di scomporre con pazienza lo schieramento avverso.
Depurato dalle scorie della cronaca quotidiana, il comportamento ultimo di Cossiga può essere identificato in base a due motivazioni di fondo: la percezione della necessità di un consistente adeguamento costituzionale, al fine di allestire le condizioni di una democrazia «matura», non più bloccata da esclusioni ideologiche; l’ individuazione nel Parlamento di due fronti contrapposti, l’uno favorevole a un decisivo salto istituzionale, l’altro propenso a minimizzare l’intervento sulla Costituzione e ad agire con soluzioni di mutamento morbido. Il messaggio discusso alle Camere alla fine del luglio 1991 significava probabilmente il tentativo estremo di fare emergere questi due schieramenti e di instradare il dibattito istituzionale verso un confronto che a quel punto, nel giudizio del capo dello Stato, non poteva più essere contenuto nelle stanze di compensazione del sistema partitico, ma che per la sua ampiezza e per il suo significato doveva trovare una legittimazione popolare.
Non sono mancate le accuse a Cossiga di voler aprire la via a una democrazia di tipo plebiscitario e presidenzialista. E di fatto molti osservatori avevano buon gioco nell’obiettare che la riforma del sistema politico e istituzionale poteva benissimo essere oggetto del confronto tra i partiti. Ma ciò che è risultato evidente alla fine dei giorni frenetici della discussione parlamentare sul suo messaggio è stata la grande debolezza dello schieramento che sponsorizzava le tesi del capo dello Stato. Se l’obiettivo del Quirinale era quello di consolidare uno schieramento favorevole alla seconda Repubblica, magari ancora minoritario ma con una consistenza sufficiente a fare esplodere le contraddizioni nell’alleanza di governo e a provocare quindi la fuoruscita del dibattito istituzionale dal circuito parlamentare, nella direzione di soluzioni referendarie, si deve prendere atto che questa strategia è sostanzialmente fallita. Al termine della discussione nei due rami del Parlamento il fronte allineato sulle posizioni di Cossiga è risultato troppo debole per poter produrre esiti di qualche rilievo. A fianco del Psi, che a lungo si è proposto come il vero «partito del presidente», sono rimasti, oltre alla pattuglia liberale, partner non propriamente utili come il Movimento sociale e la Lega lombarda.
Chi vorrà trarre un bilancio della presidenza Cossiga dovrà quindi mettere nel conto un risultato per certi versi paradossale: vale a dire il suo involontario contributo all’immobilità, insieme con una sottile ma via via più percepibile opera di delegittimazione del tema delle riforme istituzionali, che da strumento essenziale di rinnovamento hanno cominciato ad assumere ad un certo punto il segno di una insidiosa valenza di destabilizzazione. Per un politico, ed è difficile negare che Cossiga ha tentato una scommessa politica altissima, si è trattato di un errore; anzi, peggio, di una sconfitta.
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