Questo articolo fa parte dello speciale Amministrative 2021
Torino, la città-laboratorio, anche questa volta tiene fede al suo nome. Un laboratorio piuttosto movimentato e imprevedibile, con i partiti di centrosinistra alle prese con primarie fortemente volute dal Nazareno, con i Cinque stelle in crisi di consensi e dove il centrodestra candida un imprenditore locale non iscritto a nessuno dei partiti che lo sostiene. L’esito elettorale è apertissimo e si giocherà sul filo di lana, con probabili accordi o «desistenze» ancora da scrivere. L’incertezza che accompagna questa tornata di amministrative ha una storia che viene da lontano (A. Bagnasco, G. Berta e A. Picherri).
Dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta (giunte Novelli), la politica economica della città non era realmente nelle mani del governo locale: contavano i legami verticali e la concertazione nazionale. La crisi degli anni Ottanta lascia più spazio alle «aristocrazie» locali, che si organizzano in gruppi fino ad allora estromessi dalle decisioni strategiche. Sono gli anni delle giunte pentapartito (1985-1992), con l’esclusione dei comunisti, che vedono alternarsi in sette anni quattro sindaci alla guida della città (Cardetti, Magnani Noya, Zanone e Cattaneo). Sono anche gli anni in cui le élite locali si aggregano in due campi contrapposti, uno «pro business» e l’altro «pro labour», in una competizione polarizzata (R. Locke) che blocca l’azione collettiva. La riforma del 1993 per l’elezione diretta del sindaco (R. Catanzaro, F. Piselli, F. Ramella e C. Trigilia) si presenta così in uno scenario dove la politica fa da collo di bottiglia per lo sviluppo (A. Bagnasco).
La formazione delle coalizioni coinvolge la società civile torinese; mentre Rifondazione e la Rete candidano l’ex sindaco Diego Novelli, Pds, Verdi e Alleanza per Torino (un movimento che riunisce diversi ambienti del riformismo laico e cattolico) propongono la candidatura del professore del Politecnico, Valentino Castellani. La candidatura è «certificata» da otto intellettuali legati alla sinistra ma indipendenti dai partiti (tra i quali Arnaldo Bagnasco, Nicola Tranfaglia e Gian Giacomo Migone). Con la vittoria di Castellani si insedia al governo della città una coalizione che mette insieme ex comunisti ed ex democristiani, oltre che esponenti del mondo imprenditoriale e intellettuali, in cui i partiti hanno un peso modesto. Durante il primo mandato della giunta Castellani (1993-1997), vengono messe in cantiere molte iniziative, con un orizzonte di medio-lungo periodo e poco legate a esigenze di consenso elettorale. La «questione sicurezza» e il deficit di comunicazione pubblica portano Castellani alla sconfitta al primo turno delle elezioni comunali del 1997. Castellani vince poi al ballottaggio con soli 4.700 voti di scarto, grazie all’alleanza con Rifondazione comunista. Nel periodo delle due giunte Castellani la classe dirigente locale si organizza in un «reticolo policentrico», formato da attori legati da legami orizzontali e con ampia possibilità di azione collettiva. Questo modello segna una cesura rispetto al «reticolo polarizzato» prima menzionato (1985-1992), quando le élite locali erano aggregate in due campi contrapposti.
Torino era una città ricca di "luoghi intermedi", spazi fisici di confronto, dove gli attori di quella che sarà poi la classe dirigente locale condividevano visioni e soluzioni
È importante ricordare come si forma questa coalizione urbana policentrica. Torino era una città ricca di «luoghi intermedi», spazi fisici di confronto e discussione, dove gli attori di quella che sarà poi la classe dirigente locale si confrontavano e condividevano visioni, soluzioni e criteri reputazionali. Questa «organizzazione della diversità» si nutriva anche della «diversità organizzata» che – in quegli anni – caratterizzava ancora Torino (S. Scamuzzi; B. Dente, L. Bobbio e A. Spada; L. Bobbio, G. Pomatto e S. Ravazzi).
Dopo le due giunte Castellani nel 2001, con la prima giunta Chiamparino si assiste a un ritorno completo dei professionisti della politica: i diciassette assessori dei primi quattro anni sono tutti appartenenti a partiti. Dal punto di vista dell’agenda di governo, la giunta Chiamparino è in totale continuità con i progetti avviati da Castellani: linea sotterranea della metropolitana, passante ferroviario, progetti edilizi, viabilità, Olimpiadi. Si avvia così la cosiddetta «traiettoria centrale» dell’innovazione urbana torinese (F. Barbera e T. Parisi), i cui esiti dipingono un quadro in chiaroscuro (S. Belligni e S. Ravazzi).
L’agenda urbana della città politecnica, policentrica e pirotecnica – secondo la felice formulazione di Silvano Belligni e Stefania Ravazzi – non ha sedimentato consenso politico nella cittadinanza. Durante le giunte Chiamparino la classe dirigente locale si consolida in ruoli formali, strutture dedicate e carriere pubblico-private. Gli analisti della politica locale denunciano un forte rischio di «tecnocrazia oligarchica», basata su un sempre più labile collegamento tra l’inner circle delle élite locali e la cittadinanza nel suo insieme (S. Belligni e S. Ravazzi). Scarso ricambio delle classi dirigenti, immobilismo e presidio delle posizioni, accentramento del potere di agenda: fattori che generano desiderio di rivalsa tra gli esclusi, che si salda con il risentimento delle periferie, ai margini della «traiettoria centrale» dello sviluppo urbano e con i timori della piccola borghesia urbana.
La coalizione di centrosinistra che ha governato la città dalla prima metà degli anni Novanta è invecchiata senza rinnovarsi e la "capacità di futuro" della città si è atrofizzata
La coalizione urbana di centrosinistra che ha governato la città dalla prima metà degli anni Novanta è invecchiata senza rinnovarsi, senza cooptazioni «dissonanti» capaci di portare semi di innovazione e consenso in un gruppo che ha visto depotenziata la spinta propulsiva dei primi dieci anni di attività (1993-2003): la «capacità di futuro» della città si è via via atrofizzata (F. Barbera, A. Bocco, A. De Rossi, M. Guerzoni, P. Lombardi, P. Mellano, A. Quarta e G. Semi).
Alle elezioni amministrative del 2016, viene così premiato il Movimento cinque Stelle con la candidatura di Chiara Appendino. L’amministrazione Appendino si è caratterizzata, da una parte, per una maggiore centralizzazione dei processi decisionali, che ha generato tensioni interne al Movimento e che, in parte, ne spiega la perdita di consensi. Dall’altra, si è presto adattata ai vincoli locali, tessendo processi decisionali negoziali con il «Sistema Torino», diventato un partner con cui allearsi e trattare (C. Biancalana).
La vittoria del Movimento cinque Stelle non ha cambiato la situazione: le vittorie elettorali possono convivere con importanti continuità nei sistemi di potere. La storia politica di Torino insegna che l’innovazione urbana richiede una «coalizione eterarchica», capace mettere a valore comune «la diversità organizzata» e «l'organizzazione della diversità» (D. Stark).
Elementi entrambi necessari e oggi fortemente in affanno. Una crisi della classe dirigente e della capacità di rappresentanza dei corpi intermedi, in una città in crisi demografica ed economica. La miscela per la tempesta perfetta, in attesa degli accordi non ancora scritti.
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