La città esce dalla crisi pandemica dopo aver attraversato una crisi economica ultradecennale: la crisi del 2007-2008 non aveva conosciuto ripresa, mentre la contrazione economica di questi quindici mesi ha colpito tutti i settori. Immobiliare, turismo, commercio e ristorazione…Tutti sono stati variamente indeboliti dalla crisi, in una città che già da tempo non è più anticiclica rispetto alle tendenze economiche.

Crisi economica, miraggio degli investimenti, programmazione pubblica. Tempi, forme, modalità di uscita da questa crisi sono ancora da definire. Il ridisegno dell’economia romana dipende dall’uso che si farà del Pnrr (e c’è anche il capitolo del Giubileo del 2025); dall’adattamento degli attori economici – di ogni dimensione – ai tempi della ripresa; dalla capacità e volontà della città di entrare nel circuito dei grandi investimenti privati globali (è plausibile e auspicabile? In quali forme?); dalla capacità dell’amministrazione pubblica locale di re-imparare a progettare, al fine di sostenere nuovi processi di sviluppo e di adattamento dell’economia, nonché di intervenire sulle diseguaglianze strutturali – più profonde che in altre città – che colpiscono Roma.

Quale forma prenderà la mappa cittadina della disoccupazione e della sotto-occupazione? Quali crisi aziendali saranno più rilevanti (pensiamo ad Alitalia, per esempio)? Che andamento e che forme avrà l’occupazione nel commercio, nel turismo, nella ristorazione e in altri settori del terziario «arretrato»? Roma ritroverà una missione e le «vocazioni» di sviluppo che sono assenti da un ventennio? Manca il chi e il come, almeno per ora, in un mix di politiche pubbliche e di investimento che dipendono da scelte sovranazionali, nazionali e locali. E in questo breve elenco non abbiamo incluso una serie di temi chiave, sui quali serve altrettanta capacità di progettazione ed esecuzione: l’innovazione digitale, la transizione ecologica, la rivoluzione nel settore della trasportistica. Non si parla che di trasformazione, ma la trasformazione è un treno sul quale non tutti potranno salire allo stesso modo.

Le ricerche sullo stato dell’economia romana – prendiamo in considerazione la descrizione offerta recentemente da «Roma ricerca Roma» – mostrano una città arretrata. È noto che Roma possieda sacche di eccellenza in alcuni settori del terziario avanzato: il «Rapporto statistico sull’area metropolitana romana» del 2020 sostiene che «il tessuto produttivo che ruota intorno all’area metropolitana è contraddistinto da una notevole dinamicità, e occupa più di altri contesti territoriali alcune tipologie di occupati molto formati e collocati in professioni ad alta specializzazione». Nonostante ciò, però, nella Capitale si registra quella che «Roma ricerca Roma» definisce come «crisi del valore»: «il numero di imprese è cresciuto, mentre in Italia è rimasto pressoché stabile. Il problema è che tale crescita di occupati e imprese si è associato negli ultimi anni ad una notevole riduzione del valore aggiunto prodotto che, in rapporto al numero di abitanti, ha avuto a Roma un crollo del 9% mentre in Italia si è ridotto di meno della metà (-4%) e a Milano è aumentato del 10%. Tale crollo può essere dovuto da un lato alla riduzione della produttività delle imprese nei loro rispettivi settori, e d’altro lato a un ri-orientamento verso settori a più bassa produttività».

Roma e la pax Pd. Su questo panorama si affaccia all’orizzonte il conflitto politico delle amministrative di metà ottobre. Chi vincerà dovrà governare le incognite di questa fase; avrà a disposizione più risorse dei sindaci del decennio appena concluso; gestirà una città che possiede una macchina burocratica del tutto inadeguata (indispensabile per progettare, spendere, indirizzare, monitorare…); affronterà turbolenze e disagi sociali, ma anche potenziali sacche di scontento di specifiche categorie produttive; pagherà il pegno decennale dell’assenza di visione strategica del mondo imprenditoriale romano; si confronterà con una struttura istituzionale non adatta alla scala metropolitana di Roma, tanto nella dimensione di prossimità (Municipi senza soldi e poteri, ma popolosi come medie città italiana) che in quella dell’area vasta; dovrà confrontarsi con una società civile composita, sicuramente vivace, ma mai capace di trasformare i numeri della cittadinanza attiva in domanda politica davvero cittadina: nonostante alcuni momenti di meritoria «emersione», Roma appare troppo grande e complicata per permettere alla società civile di uscire dal paradigma del «piccolo è bello». Almeno fino a ora. Nonostante alcuni momenti di meritoria "emersione", Roma appare troppo grande e complicata per permettere alla società civile di uscire dal paradigma del "piccolo è bello". Almeno fino a ora

Il primo rito della stagione elettorale si è appena compiuto grazie alle primarie della coalizione di centrosinistra, alle quali hanno partecipato sette candidati (i dati sono reperibili qui). Il dato politico è quello dell’unità ritrovata del Pd attorno a una candidatura istituzionale forte, quella dell’ex ministro Roberto Gualtieri: non che il Pd romano abbia trovato vera pace rispetto all’epoca delle dimissioni di un suo sindaco con atto notarile, ma sicuramente si è trattato di un armistizio che pare funzionare. Per chi fosse interessato a utilizzare la metrica della politique-politicienne per osservare gli eventi di domenica, dovrà concentrarsi sulla competizione interna al Pd che si è svolta sotto-traccia, ovvero nelle primarie per i presidenti di Municipio (qui un ottimo articolo di sintesi dei fatti), dove invece i rappresentanti del Pd si sono sfidati fra loro.

In questo senso le primarie mostrano i soliti limiti strutturali: in partiti che non posseggono strumenti per la dialettica interna come il Pd (scelta sancita dallo statuto nazionale, come ha sempre ricordato Antonio Floridia qui e in altre sedi), l’unica forma di dialogo è quella della prova di forza tramite attivazione elettorale, ovvero le primarie o il conteggio delle preferenze nelle elezioni amministrative. Senza dibattito, si misura chi nel tale territorio è ancora in grado di mobilitare risorse e persone («Massimina contro Donna Olimpia»: capiranno solo alcuni romani, ma parliamo di un derby infra-Pd – ormai un classico – del Municipio di residenza di chi scrive), mentre nel frattempo si riscrivono alleanze legate alle leadership locali, che solitamente risiedono in istituzione altre (amministratori ed eletti delle istituzioni regionali o nazionali, se non addirittura in quelle europee): in quel Municipio ha vinto «x», «y» ha battuto «z» quasi sempre intendendo il leader «sovracittadino» e non il candidato di Municipio.

Il candidato Gualtieri affronta la prova elettorale avendo dalla sua un partito poco dinamico, assai introflesso nella sua competizione interna, privo di mezzi economici e personale (tutti i dipendenti del Pd romano sono in cassa integrazione), ma non del tutto balcanizzato come è stato in tempi recenti. E ha dalla sua, soprattutto, una forte inerzia elettorale, ovvero una sacca di consenso per l’area del centrosinistra piuttosto robusta (al di là della débâcle del 2016, quella post-mariniana) che diviene oro se la partecipazione al voto rimane bassa. Il Pd riparte dai 340 mila voti ottenuti nelle europee del 2019 (quando fu primo partito della città con il 30% dei consensi), poco meno di tutti quelli ottenuti da Roberto Giachetti nel ballottaggio del 2016.

Le elezioni più pazze del mondo: (a sinistra) c’è vita oltre il Pd? La strategia elettorale è ancora una nebulosa. Il punto è cosa potrà aggregare il Pd oltre la rassicurante figura di politico di alto profilo del candidato (sicuramente apprezzata dall’elettorato tradizionale del partito) e oltre il suo recinto; se e quanto Carlo Calenda drenerà da quel bacino, con un campagna aggressiva, ricca di denaro e del sostegno di chi intende farne modello nazionale («si vince al centro»); se una parte di voto del Movimento 5 Stelle guarderà al centrosinistra, oppure si ritroverà nelle secche dell’astensionismo; se le amministrative post-covid saranno ignorate dai romani, oppure se l’alta densità di candidati di peso (Calenda, Raggi, Gualtieri…) accenderà l’attenzione; se le tematiche nazionali dell’autunno – licenziamenti, riapertura delle scuole, la variante delta, i temi economici – copriranno le competizioni locali; se Giorgia Meloni e Matteo Salvini saranno i veri mattatori delle elezioni romane al posto di Enrico Michetti e Simonetta Matone (il ticket di centrodestra), oppure no; se lo strano coacervo di temi che il centrodestra farà suo – «orgoglio romano», libertà dalle restrizioni imposte dallo stato in questi due anni di pandemia («alla madrilena»), sicurezza – potrà mobilitare il suo elettorato oppure no. E se esiste davvero un elettorato extra Pd disposto a schierarsi a favore della coalizione del centrosinistra. Viaggiamo in una terra elettorale incognita, che rende risibili i sondaggi di questi giorni.

Alle primarie si sono schierati quattro candidati civici e uno a sinistra del Pd. Ha avuto la meglio Giovanni Caudo, arrivato secondo con circa un quarto dei voti ottenuti da Roberto Gualtieri (7 mila contro 28 mila). Gli altri hanno messo insieme, sommati, circa 10 mila voti. Appare evidente come esista ancora una porzione di elettorato del centrosinistra romano che non intende abbracciare il Pd con un assegno in bianco. In una competizione affollata come quella del primo turno delle amministrative romane, sarà decisivo per Gualtieri stringere un patto con questo segmento. Un segmento ancora diviso nelle rappresentanze (spesso con dinamiche personalistiche non dissimili da quelle delle lotte intestine del Pd) e quindi privo di una spinta propulsiva che lo faccia crescere fino a divenire realtà politico-elettorale. Il candidato Gualtieri dovrebbe essere capace di restare in bilico tra autorevolezza della figura  l’ex ministro, l’europeo – e la capacità di accettare la sfida della radicalità e dell’innovazione di domande che la società romana esprime e i partiti non intercettano a causa di difetti strutturali. È possibile immaginare un patto di questa portata, allo scopo di instillare un soffio di vita nella campagna di settembre? A Roma di solito non si fa: lo si mima con formule quali «il campo largo», ma poi non lo si pratica realmente. La strategia elettorale è ancora una nebulosa. Il punto è cosa potrà aggregare il Pd oltre la rassicurante figura di politico di alto profilo del candidato (sicuramente apprezzata dall’elettorato tradizionale del partito) e oltre il suo recinto

Riusciranno i nostri eroi ad attirare l’attenzione dei cittadini romani? I quali si sono abituati più o meno a tutto: affitti e prezzi al metro quadro della case in stile Dubai, per vivere in strade con servizi di ben altro tenore; servizi di base con una qualità quantomeno offensiva, dai trasporti al trattamento dei rifiuti; stipendi bassi e abitudine ai mille lavori e ai mille spostamenti impossibili; privatizzazione dello spazio pubblico; cattiva gestione dei beni comuni; disservizi di vario ordine e grado; fatica nella gestione della vita dei figli o dei genitori anziani. Laddove, a macchia di leopardo, si mostrano oasi di «vita buona», ci si aggrappa a esse con tutte le forze (fatte salve le osai dei ricchi, che a Roma non sono pochi). Non sappiamo bene cosa aspettarci, dai romani. Con una «pasquinata» di massa, nel 2016, votarono convintamente per Virginia Raggi: e domani? Che messaggio vorranno mandare? Vorranno fidarsi, vorranno arrabbiarsi o vorranno restare indifferenti?