Questo articolo fa parte dello speciale Amministrative 2021
Le elezioni per il sindaco e il Consiglio comunale di Napoli del prossimo ottobre trovano una città stremata e assieme ancora vitale in alcune sue componenti, in un modo che desta stupore anche in chi presume di conoscerla a fondo.
Stremata da una crisi finanziaria che si trascina da decenni, l’ente comunale è di fatto insolvibile. Al termine del secondo mandato Iervolino (2011) il debito ammontava a 800 milioni di euro; dopo due sindacature De Magistris è più che triplicato. Stremata da una lunga stagione di immobilismo amministrativo che ha lasciato cronicizzare le inefficienze di una macchina comunale ferma a epoche tecnologiche e manageriali superate da un pezzo e che riproduce (con un certo tornaconto in termini elettorali) rendite di posizione che aggiungono al servizio non reso l’ulteriore danno dell’ostacolo al cambiamento. Che ha pressocché azzerato il trasporto pubblico isolando nella reciproca differenza sociale (di reddito, di istruzione, di diritti) i cittadini delle diverse aree urbane. Immobilismo misto a insipienza amministrativa che lascia galleggiare nel tempo indefinito gli interventi di urgenza alla viabilità, come è il caso attuale della galleria Vittoria, la principale arteria di comunicazione del centro della città, ancora chiusa dal settembre scorso per infiltrazioni idriche che hanno danneggiato i pannelli della volta e ancora nello stato di un cantiere fantasma; nel frattempo, la città è letteralmente tagliata in due. Lascia incompiuti i progetti di arredo e riassetto viario, come nel caso dei lavori alla rotonda di via Marina, la porta orientale della città, per i quali era prevista una gigantesca struttura con pannelli per la comunicazione istituzionale e pubblicitaria e di cui – verificata a posteriori la irregolarità rispetto al codice della strada! – resta solo uno scheletro in acciaio sormontato da una scritta recante uno dei principii meme dell’amministrazione in carica, «nessuno escluso», che nella sua posticcia estetica e rabberciata collocazione svilisce, ridicolizzandolo, il tema che pretende di rappresentare.
Napoli è una città stremata dall’isolamento barricadero della sua amministrazione, in guerra ideologica perenne con la politica nazionale e con l’amministrazione regionale, la cui contrapposta retorica per propria disposizione contribuisce allo slabbramento complessivo del tessuto istituzionale. È una situazione insostenibile che ha anche – come capita sempre in questi casi – ricadute farsesche. Lo possono testimoniare gli addetti al protocollo di comune e regione, costretti ai salti mortali per evitare l’incrocio dei rispettivi vertici nelle occasioni pubbliche.
Napoli è una città stremata dall’isolamento barricadero della sua amministrazione, in guerra ideologica con la politica nazionale e regionale, la cui contrapposta retorica contribuisce allo slabbramento complessivo del tessuto istituzionale
A questo vuoto di governo dell’amministrazione e pervicace isolamento politico fa da contraltare il pieno di comunicazione. Napoli è satura di parole, slogan, polemiche, editoriali, reciproci posizionamenti verbali, che per lo più animano un ristretto circuito di opinion maker ma che nondimeno servono ad alimentare la guerra di religione che è l’ordinario modo di concepire i rapporti e l’azione politica. È questo il solo ambito di attivismo, in cui si impiegano le maggiori energie per affilare i proclami a favor di popolo che grondano dalla comunicazione istituzionale.
Lo squilibrio tra parole e azione trova tuttavia alcune spiegazioni. Una di queste è la debolezza strutturale dell’azione amministrativa che prescinde dalle capacità della classe politica. Possiamo richiamare al riguardo la crisi finanziaria del comune, che certo si è scelto di non affrontare con la procedura di dissesto anni fa, quando forse era ancora gestibile, ma che è altrettanto vero abbia una origine ben più lontana nel tempo e sia stata aggravata dai pesanti tagli ai trasferimenti degli ultimi 10 anni. La mancata definizione, ormai da 20 anni, dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni) ha divaricato nel tempo una differenza di spesa pubblica con altre città del Centro Nord inaccettabile. Si pensi, solo per fare un esempio, al caso degli asili nido che a Napoli lo Stato finanzia con meno di un terzo delle risorse che mette a disposizione per Torino, mentre in altri grandi comuni dell’area metropolitana il finanziamento è pari a zero.
La drastica riduzione del flusso finanziario dal centro ha trovato riflesso in una riduzione del personale impiegato senza precedenti. Nel 2010 i dipendenti del comune erano 11 mila, in 10 anni sono più che dimezzati passando agli appena 5 mila di oggi. Interi servizi comunali sono stati decimati: è arduo in queste condizioni assicurare anche solo il carico ordinario di lavoro.
In una simile situazione di difficoltà strutturale l’ente comunale ha dovuto fronteggiare probabilmente la più difficile fase storica dal Dopoguerra. La sovrapposizione della pandemia alla lunga crisi globale ha assestato un durissimo colpo all’iniziativa privata e alla capacità di autosostentamento mettendo le già povere casse comunali, e le rinsecchite braccia amministrative, davanti all’impresa improba di sostenere la vita ordinaria della città e il tessuto delle sue attività sociali ed economiche.
Debolezza amministrativa e debolezza politica sono andate di pari passo. La constituency dell’amministrazione in carica è davvero risicata. Per quanto l’affermazione elettorale del 2016 in termini numerici sia stata netta, De Magistris si regge su una maggioranza di una estrema minoranza: al secondo turno è stato votato dal 24% degli aventi diritto, l’affluenza alle urne è stata appena del 36%, la più bassa di sempre.
Complice la carenza di legittimazione politica, anche la solida maggioranza numerica di seggi in Consiglio si è presto sfarinata. La giunta è così rimasta in piedi grazie a complicati calcoli algebrici e alla sponda offerta di volta in volta dai consiglieri di opposizione, con l’ovvio risultato di privare la sua azione di una cornice politica che potesse sostenere la già di per sé flebile azione amministrativa.
Nella frammentazione e incertezza si è creato lo spazio per i compromessi al ribasso e le relazioni di sottogoverno. Napoli è la sola tra le grandi città italiane in cui alle scorse elezioni si è presentata, nella coalizione dell’attuale sindaco, una lista di rappresentanza sindacale degli impiegati comunali. Napoli è dunque, per diverse ragioni, una città ripiegata su se stessa, la cui amministrazione si occupa prioritariamente della propria sopravvivenza, inadatta – prima ancora che contraria – a determinare cambiamenti. Il rapporto tra il corpo della città e le scarne funzioni direttive che restano è il principale «metaproblema». Non è tanto l’isolamento reciproco e il battibeccare tra le istituzioni quanto la loro separazione dagli interessi e la incapacità di questi ultimi di organizzarsi in fronti consolidati. Negli anni è saltato il tessuto connettivo della rappresentanza, il rapporto tra domanda e offerta politica. È un tema di lungo periodo che riguarda sia la classe politica sia il campo della società civile. Dal crollo del blocco di potere degli anni Ottanta, imperniato sull’asse tra funzioni di impresa e finanziamenti pubblici gestiti dai governi di pentapartito, manca un sistema definito di governance.
Le due amministrazioni Bassolino (1993-2001) hanno potuto raggiungere alcuni significativi risultati, in particolare nel campo dei trasporti, della cultura e della vivibilità, operando nel vuoto politico e sfruttando il rimbalzo etico del dopo-tangentopoli. Il manico di quella gestione, tuttavia, ha scontato un eccesso di politicismo, un ancoraggio agli schemi della stagione precedente, e quella esperienza si è andata arenando sulle compatibilità del quadro politico nazionale che hanno alla fine marginalizzato gli interessi della città. Bassolino ha interrotto la seconda sindacatura diventando ministro del governo D’Alema (1998), poi quando nel 2001 è stato eletto presidente della Regione Campania ha dato vita a una lunga trattativa con De Mita per la ripartizione di incarichi e ruoli direttivi che aveva come prioritario obiettivo quello di puntellare l’alleanza nazionale dell’Ulivo sulla base di un patto di ferro tra la componente cattolica e quella di sinistra.
Le due sindacature successive di Rosa Russo Iervolino (2001-2011) hanno girato «a folle» dentro questo schema di ripartizione «feudale» del potere. La sclerotizzazione delle due componenti, avvenuta spartendosi ruoli e funzioni di sottogoverno, colonnelli, galoppini e clientes, ha minato fin dalle origini il progetto di fondazione del Pd. L’amministrazione ha via via perso di vista la città, i suoi interessi, i fattori di una possibile classe dirigente che aggiungesse il necessario pluralismo – il solito problema di fondo del rapporto tra la città e le sue funzioni direttive – e desse sbocco concreto a una lunga fase di gestione del potere cittadino e regionale che ha potuto disporre delle ultime cospicue risorse.
La chiusura burocratica di quelle élite politiche si è infranta simbolicamente sulla crisi dei rifiuti del 2008 e ben più concretamente sull’impoverimento indotto dalla crisi globale di quegli anni. Non è un caso che a Napoli l’ondata populista anticipi i tempi, con l’elezione della giunta arancione di De Magistris nel 2011.
Napoli è una città decisamente peggiorata negli ultimi 10 anni, dal punto di vista socio-economico, della qualità del tessuto di classe dirigente e in modo più specifico delle capacità politico-amministrative. Ma in un quadro segnato da tinte fosche mantiene in modo inaspettato alcune grandi potenzialità. Il rapporto Giorgio Rota del 2016 ne mette in rilievo alcune. L’area metropolitana di Napoli è la quarta provincia in Italia per numero di imprese, con una dinamica di accelerazione superiore alla media italiana. Di queste, quasi il 15% è condotto da giovani imprenditori, una media nettamente superiore a quella del Paese. Soprattutto l’area Nord vede una concentrazione di attività di impresa e di popolazione giovane che non ha uguali nel Paese. Con una presenza manifatturiera non trascurabile concentrata nelle 4 «A»: autoveicoli, aerospazio, agroalimentare, abbigliamento. E tutto questo è andato avanti secondo un processo spontaneo, nell’assenza di un quadro direttivo razionale, una sorta di big society senza neanche punti fermi della società civile, leadership riconosciute nel campo del potere economico. Ciò mostra una vitalità e assieme un enorme spreco di risorse, che richiedono un lavoro paziente di rammendo e di direzione.
La città ha bisogno innanzitutto di un’operazione di riallineamento del dibattito politico, di ristabilire un’igiene del confronto pubblico, di ricostruire il discorso che la riguarda su basi razionali e di attendibilità
La pandemia ha prodotto danni enormi, ma sembra aprire anche finestre di opportunità, rappresentate non solo dalle risorse che si potranno investire e dalle riforme che necessariamente le accompagneranno, ma anche dalla possibile rottura, indotta dall’urgenza della fase in cui ci troviamo, del gioco di specchi nel quale la città è prigioniera. La città ha bisogno innanzitutto di un’operazione di riallineamento del dibattito politico, di ristabilire un’igiene del confronto pubblico, di ricostruire il discorso che la riguarda su basi razionali e di attendibilità. E ha bisogno di una leadership che sia capace di immaginarla in una dimensione di area vasta e di rapporti internazionali, che sia in grado di unire politica e società, settori economici di punta e servizi amministrativi, istituzioni locali e istituzioni nazionali, quartieri centrali, aree intermedie e il policentrismo della sua area metropolitana, che promuova il pluralismo che la caratterizza senza pretendere di sottometterlo.
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