All’una della notte fra il 4 e il 5 settembre 2014 un ragazzo di 16 anni, Davide Bifolco, muore con un colpo di pistola al petto. Sarebbe già abbastanza, ma la cosa è ancora più grave:quel colpo è partito dalla pistola di un carabiniere e soprattutto quel carabiniere credeva di avere inseguito un altro. Nel giro di pochi minuti si consuma una tragedia, si corrode l’onorabilità dello Stato, si dà l’avvio a una rappresentazione farsesca.

Questo accade a Napoli in un quartiere di edilizia popolare, il rione Traiano, uno dei tanti pezzi della periferia in cui gli abitanti non devono solo avere a che fare con la mancanza di lavoro e con la presenza degli spacciatori, ma anche con le generalizzazioni improprie e con le etichette che ne conseguono: è un quartiere di criminalità.

I carabinieri quella sera cercavano di arrestare un giovane del rione Traiano, 25 anni, colto mesi prima a fare il palo per una banda di ladri d’appartamento e condannato agli arresti domiciliari. Dopo qualche mese è stato visto per strada nei paraggi e quindi da allora tecnicamente evaso. Il ragazzo viene intercettato da una volante ma riesce a scappare, prima in casa, poi dalla finestra e infine con l’aiuto di qualcuno in motorino. Ha una maglietta bianca. I carabinieri della zona cercano la collaborazione di altre volanti. Una di queste incrocia uno scooter della stessa marca del fuggitivo. A bordo però sono in tre, uno di questi indossa una maglietta bianca anche se sopra ha un giubbotto. Salvatore, il proprietario del motorino, scappa perché sa di avere l’assicurazione scaduta e ha paura del sequestro. La volante li raggiunge, li tampona, cadono, il guidatore si rialza e scappa inseguito da uno dei due carabinieri. L’altro esce dalla macchina e dopo pochi istanti Davide, che era ancora in ginocchio, è colpito al cuore. Muore sul colpo.

Il libro di Riccardo Rosa, Lo sparo nella notte. Sulla morte di Davide Bifolco, ucciso da un carabiniere indaga a fondo sulla vicenda e ricostruisce quello che succede quella notte, i meccanismi che ne hanno influenzato il corso. È chiaro da subito che è una tragedia e che il carabiniere ha sbagliato, ma forse proprio per questo parte una sequenza di ulteriori errori, tentativi pasticciati di costruire una diversa dinamica dei fatti. Il corpo viene spostato, portato in ospedale come se si potesse rianimare; sparisce il bossolo del proiettile ma viene fatta trovare una pistola a salve, che poi non si troverà quando la magistratura inizierà a indagare; comincia a circolare una ricostruzione completamente diversa: il motorino non si sarebbe fermato a un posto di blocco e c’è stata una sparatoria tra carabinieri e latitanti.

Davide muore per mano della polizia, come in Italia accade per fortuna di rado. Spesso in questi casi le Forze dell’ordine cercano di coprire le proprie responsabilità; è accaduto di recente ad esempio con Aldrovandi, con Chicchi. Ma la storia di Davide Bifolco è diversa, nel suo caso la stampa si schiera con le versioni colpevolizzanti della polizia e continua a farlo anche dopo che il processo ha stabilito una diversa versione dei fatti e condanna in primo grado il carabiniere a quattro anni e quattro mesi per omicidio colposo causato da una condotta imprudente e negligente.

Il libro di Rosa si snoda con il ritmo, con la meticolosità, con la ricerca di riscontri, con un desiderio di capire che i giornalisti non hanno avuto e che non ha caratterizzato nemmeno le prime fasi delle indagini. Con passo cadenzato e una scrittura asciutta l’autore rimette insieme tutti i passaggi della vicenda, non con il piglio di quello che spesso si autodefinisce giornalismo investigativo, ma con lo sguardo largo e profondo dell’inchiesta sociale. La struttura portante è quella che emerge dalle carte processuali, ma non si ferma a quello che è successo quella sera. L’autore cerca di comprendere perché sia successo e soprattutto perché la sua narrazione sia stata e continui ad essere così pesantemente travisata. Il caso è clamoroso.

Fin dal mattino seguente la stampa invia giornalisti nel quartiere, ma dall’atteggiamento che hanno nell’intervistare i ragazzi e dai pezzi che escono nei giorni seguenti si capisce che non c’è molta voglia di capire, piuttosto di confermare la versione della fuga dal posto di blocco, del latitante a bordo, del ritrovamento della pistola. Quando i ragazzi del quartiere cercano di spiegare che Davide era uno tranquillo, i giornalisti provano a “far dire la verità” a qualcun altro. E questo conferma ai loro occhi il carattere omertoso del quartiere, aiuta a colorire i pezzi con gli stereotipi correnti sui quartieri più poveri, aiuta infine a far montare un clima di allarme che è poi quello cui in fondo va addebitata la morte di Davide.

Troppo spesso ci si dimentica che, mentre la narrazione della violenza si fa sempre più incalzante, le statistiche ne mostrano un costante declino anche nel Mezzogiorno: gli omicidi sono diminuiti di 4 volte dagli anni Novanta e raggiungono i più bassi livelli in Europa, ovvero nel mondo. Questo dato, ignoto ai più, non va preso in senso consolatorio, ma piuttosto come un risultato di politiche di lungo periodo che andrebbero ancora più affinate e invece rischiano di essere sovvertite in nome di semplificazioni securitarie che hanno solo fini elettorali.

Riccardo Rosa invece segue il caso con pazienza e curiosità, dandosi tempi lunghi e, approfondendo la conoscenza del quartiere, ne ripercorre la storia: dalla progettazione nel dopoguerra ad opera di Marcello Canino, al suo progressivo popolamento con famiglie che avevano perso casa nel centro storico in seguito ai bombardamenti e poi con nuclei di operai e di impiegati, alla sua marginalizzazione e sovraffollamento dopo il terremoto del 1980 per effetto di incuria nella manutenzione, di impoverimento della popolazione e progressiva diffusione della vendita di droga. La cura con cui vengono spiegate le condizioni di vita, la storia delle famiglie coinvolte, la vita del quartiere tra stradoni, parrocchie e campi di calcio non è un esercizio sociologico per dare al lettore uno sguardo ravvicinato su mondi estranei, ma più semplicemente il risultato di un lavoro di inchiesta meticoloso, durato anni, in cui l’autore ha avuto modo di seguire da vicino questa storia, di ascoltare le testimonianze di chi quella sera c’era, di chi conosceva Davide, della famiglia. Ma nel libro ci sono anche altre storie: ne esce un ritratto composito della vita del quartiere, di come sia difficile trovare e mantenere un lavoro, di come spesso anche chi ce l’ha non riesca a mantenere una famiglia e come sia faticoso e pericoloso vivere tra imposizione delle organizzazioni criminali e azione repressiva della polizia.

Sono passati ormai anni da quella sera. Senza il puntiglio di questo libro Davide sarebbe ricordato solo dai parenti e dagli amici, quelli che nel posto in cui è stato ucciso hanno ricavato un piccolo angolo tenuto con cura: qualche pianta, due panchine e una lapide.

I problemi sono rimasti gli stessi, ma l’etichetta è cambiata: mentre rapine, furti e omicidi continuano a diminuire, l’attenzione a Napoli è tutta concentrata sulle cosiddette baby gang ed è lo stesso procuratore generale nel suo discorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario a dire che l’allarmismo è ingiustificato per poi spiegare che la vera novità è che diversi casi si sono registrati anche in zone "che venivano ritenute sicure" e non più soltanto nelle periferie degradate: insomma la delinquenza impari a stare al suo posto.

 

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