L’elezione del futuro presidente della Repubblica comincia a essere al centro della discussione politica, come è giusto che sia. Negli ultimi anni, a causa del cattivo funzionamento del sistema istituzionale e del vorticoso e imprevedibile succedersi di governi diversi, il Quirinale è diventato il vero elemento di stabilità del sistema Italia, non solo sul fronte della politica interna, dove ha saputo svolgere in modo straordinario un ruolo di saggezza e di moderazione, ma anche e forse soprattutto sul fronte della politica estera che è – per un Paese non autosufficiente sul piano militare, finanziario e tecnologico – il fronte realmente e politicamente decisivo.
L’Italia, da dopo la fine della Seconda guerra mondiale, è un Paese strutturalmente integrato nelle organizzazioni e negli ambiti sovranazionali di cui è parte. In particolare la Nato, a cui deve la propria difesa in caso di aggressione, e l’Unione europea, a cui deve l’accesso a condizioni di stabilità e sicurezza, a un grande mercato interno e al più vasto mercato internazionale da cui attinge buona parte delle risorse di cui ha bisogno. Un Paese con un enorme debito pubblico come il nostro, privo di una rete di garanzia europea, sarebbe in balìa di speculazioni ingovernabili che produrrebbero un'inevitabile bancarotta. Non si dimentichi l’appartenenza ad altri organismi come il Consiglio d’Europa a cui l’Italia è debitrice con riguardo alla tutela dei diritti delle persone: innumerevoli provvedimenti legati alla disparità di genere, alle condizioni di vita nelle carceri, al reato di tortura, al respingimento di richiedenti asilo sono stati assunti grazie alla piena integrazione nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La natura decisiva dell’integrazione sovranazionale del nostro Paese è emersa con chiarezza nella crisi dei governi Conte Uno e Conte Due.
Nel primo caso (Conte Uno) l’evidente sbandamento geopolitico ha prodotto una brusca correzione di rotta non solo nella maggioranza di governo (e nella compagine ministeriale a partire dai ministeri chiave della Difesa e delle Infrastrutture), ma anche nella narrativa dominante. È da quel momento che ogni personalità di governo all’inizio del proprio discorso fa un’esplicita professione di fede di atlantismo ed europeismo così sfacciata (e talvolta codina) che non si udiva dai tempi della Guerra fredda. La conversione a U dei 5 Stelle ne è l’esempio più evidente. Ma anche la successiva disperata rincorsa della Lega dimostra che la lezione è stata appresa. Se si vuole governare un Paese integrato, non ci si può opporre alla cornice entro cui si è scelto di essere integrati.
Nel secondo caso (Conte Due) l’evidente inadeguatezza operativa del sistema Italia ha reso non credibile una compagine governativa che si apprestava a gestire l’immensa dotazione dei fondi europei. Le dichiarazioni di fede europeista non bastano. Non bastano le parole. Servono fatti e solide biografie, quando si pretende di partecipare a un programma di indebitamento che grava sulle spalle di tutti e non solo di chi ne beneficia immediatamente. Il vero e proprio salto di integrazione europea, rappresentato dal Recovery Fund, con l’emissione – per la prima volta nella storia dell’Ue – di bond europei esige una classe dirigente europea, basata sulla reciproca, granitica fiducia con riguardo ad alcuni fondamentali dell’economia. Non è la fede europeista di Draghi che ha rappresentato la svolta, ma la sua straordinaria competenza di governo delle dinamiche finanziarie internazionali, unita a una profonda conoscenza del sistema finanziario italiano, che rappresenta una garanzia maggiore. Lo si è visto in occasione della sua telefonata a Ursula von der Leyen: «garantisco io». All’interno di questo scenario la presidenza della Repubblica è stato l’elemento di stabilità e di credibilità internazionale del sistema ItaliaAll’interno di questo scenario, in cui il quadro esterno è stato politicamente decisivo e ancora di più lo sarà negli anni a venire, la presidenza della Repubblica è stato l’elemento di stabilità e di credibilità internazionale del sistema Italia. Un sistema integrato non accetta vuoti o debolezze. In un sistema di difesa comune o in un sistema di moneta comune, la falla di una sua parte può rappresentare un pericolo per l’intero sistema. Per questo un sistema integrato non può accettare il vacuum o lo sbandamento centrifugo di una sua parte. Non si tratta di interferenze straniere, come non solo i patetici sovranisti nostrani hanno adombrato, ma perfino qualche voce della sinistra democratica ha lasciato intendere. Si tratta delle reazioni strutturali di un sistema integrato. Nei momenti delle sfide geopolitiche ed economiche più aspre, quando un sistema è sottoposto a pressione formidabile, o si è protagonisti del governo comune, con serietà e forza, o, se si preferisce dedicarsi alla politica spettacolo, non ci si può poi lamentare delle funzioni di supplenza.
Al di là delle intenzioni dei singoli presidenti, il Quirinale – nel pieno rispetto non solo delle prerogative che la Costituzione conferisce al presidente, ma anche della cornice sovranazionale che la Costituzione e la volontà democratica del popolo italiano hanno disegnato – ha rappresentato il punto di integrazione sistemica. Ha svolto un ruolo essenziale nella formazione dei governi con la nomina di ministri chiave e ha presidiato alcuni settori decisivi che la Costituzione affida alla sua cura.
Oggi l’Italia assomiglia di fatto a una «Repubblica semi-presidenziale a elezione indiretta», con un presidente del Consiglio che assomiglia a un Primo ministro del presidente. D’altra parte, di fronte alla sostanziale rinuncia delle forze politiche – dopo la bocciatura referendaria della riforma del 2016 – di procedere a un rafforzamento della nostra forma di governo, è chiaro che il sistema non poteva che consolidare la tendenza già in atto a fare della presidenza della Repubblica il luogo della stabilità dell’azione di governo. Un governo è sempre necessario come su una nave è sempre necessario che qualcuno sia al timone. La democrazia è una forma di governo, non è un sistema per l’abolizione dei timoni. L’invasamento proporzionalista della sinistra democratica in un momento di crescente integrazione internazionale ha dell’incredibile e agisce, naturalmente, a favore della curvatura semi-presidenzialista del nostro assetto. Un governo è sempre necessario come su una nave è sempre necessario che qualcuno sia al timone. La democrazia è una forma di governo, non è un sistema per l’abolizione dei timoniIn questo quadro è del tutto evidente che l’elezione del/la nuovo/a presidente della Repubblica deve portare al Quirinale una persona che sia punto di stabilità e di credibilità internazionale. Posto che il presidente Mattarella ha escluso una sua rielezione, è chiaro che in questo contesto il nome che maggiormente corrisponde a questo profilo è quello di Mario Draghi. Suona ovvio che l’Italia ha bisogno, nella presente situazione di formidabile indebitamento, di una garanzia stabile. La garanzia che lo stesso Draghi ha offerto a Von der Leyen esige che egli assuma un ruolo fondamentale nella politica del nostro Paese per un ragionevole lasso di tempo. E, come si è detto, la presidenza della Repubblica è divenuta la vera funzione chiave del Paese anche sul piano della governabilità. Dal Quirinale potrà infatti non solo vigilare sulla cornice di insieme, ma potrà anche garantire la nomina di alcuni ministeri essenziali per la stabilità del sistema. La cabina di regia del Recovery Plan che sta mettendo in atto e le nomine che sta effettuando in alcune posizioni importanti gli consentiranno di dare continuità a quell’azione di governo che ora sta impostando da Palazzo Chigi.
La Lega sembra aver capito l’importanza del fattore internazionale e, intuendo il punto di arrivo di queste dinamiche, ha già dato la sua disponibilità a sostenerlo. Sarebbe utile cogliere questa disponibilità perché l’elezione di Draghi al Quirinale garantirebbe un settennato di stabilità e di autorevolezza relativamente alle coordinate fondamentali della politica italiana. Gli stessi nostri alleati e l’intera Unione europea potrebbero trarre grande beneficio dalla presenza sulla scena internazionale di una figura così fortemente impegnata nel rilancio del multilateralismo come Mario Draghi. Mantenerlo qualche mese in più a Palazzo Chigi non sarebbe una garanzia sufficiente.
Le ipotesi alternative appaiono assai più incerte dal punto di vista sistemico, perché paiono godere di minore consenso interno ed esterno. Nessuna di esse è in grado di portare alla presidenza una persona dal profilo altrettanto autorevole e altrettanto capace di interagire con il mondo finanziario internazionale. Di qui a febbraio 2022 si udranno mille sofismi attorno all’elezione del presidente della Repubblica e si alzeranno molte cortine fumogene, ma i pilastri della politica – stabilità geopolitica, compatibilità finanziaria e un’idea di giusto condivisa – indicano chiaramente una direzione.
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