Questo articolo fa parte dello speciale Ritorno a scuola
Nel suo Diario di scuola, lo scrittore Daniel Pennac parla degli insegnanti come di «adulti di fronte ad adolescenti in pericolo». Mi è parso subito un modo curioso di descrivere il «mestiere più bello del mondo», perché ho cominciato a insegnare poco meno che trentenne e due mesi prima che la pandemia di Covid-19 mettesse a dura prova la convinzione (vera) che essere adulti significasse saper stare presso se stessi.
In quest’ultimo anno e mezzo, mi sono chiesto come si potesse coniugare l’adultità richiesta all’insegnante con l’emerging adulthood della mia generazione, i cosiddetti millennial. D’altra parte, cosa potesse significare per la mia fisionomia di docente aver conosciuto una scuola quasi interamente digitale, dato che a causa della didattica a distanza ho all’attivo più lezioni da casa che a scuola. Non ho molte risposte, ma non è poco sapere che si sia trattato e ancora si tratti di una ricerca in compagnia, grazie alla vivacità e alla serietà intellettuale dei miei studenti e dei miei colleghi (non solo maschi, naturalmente).
È un punto di partenza importante: alla scuola come tema spesso polemico e politicizzato (non ultimo durante la pandemia) andrebbe opposto il fatto della scuola come ambiente praticato, un luogo la cui esistenza non è immediatamente data, ma si deve agli attori e alle attrici che ne permettono la costituzione e la continua conversione. Per un insegnante di religione come me, tra l’altro, ha un’importanza anche teologica (o meglio, ecclesiologica) sia perché neanche la Chiesa è un’istituzione immutabile, sia perché la scuola e la Chiesa condividono il compito di una trasmissione inter-soggettiva.
Alla scuola come tema spesso polemico e politicizzato andrebbe opposto il fatto della scuola come ambiente praticato, la cui esistenza si deve agli attori e alle attrici che ne permettono la costituzione e la continua conversione
Quale rapporto generazionale, dunque? Al di là delle ragioni anagrafiche, non c’è dubbio che ci sia molta più distanza tra la mia generazione e quella dei miei genitori, per esempio, che tra la mia generazione e i post-millennial. È una distanza culturale, dovuta a una cornice in cui si è più e meno pieni di sé al tempo stesso (più consapevoli dei propri limiti, ma per questo più spaventati e tendenti a difese narcisiste). Il giornalista Michele Serra ne ha scritto in quel romanzo devoto e per questo anche critico che è Gli sdraiati, in cui è significativo che un aspetto delle generazioni precedenti sia la detronizzazione degli adulti (il mondo dei quali era un regno da espugnare) mentre quelle attuali sembrerebbero disinteressate all’impresa.
Addirittura, Serra parla di una «mutazione così radicale» che renderebbe difficile, ormai, la condivisione di uno stesso piacere. È interessante, perciò, che nel mio caso si sia verificata l’esperienza contraria: non uno scontro ma un incontro tra generazioni, sebbene ancora poco chiaro su alcuni versanti.
Con l’attuale generazione di studenti, mi sembra di condividere una propensione alla ricerca, una certa precarietà strutturale (non solo contrattuale) e la sensazione di vivere un periodo aperto alle opportunità. D’altra parte, questo fa il paio con i timori per l’imprevedibilità della globalizzazione su cui sarebbe necessario dotarsi di più parole. In classe è abbastanza percettibile l’idea che nella più che ipotetica competizione per l’esportazione di un modello culturale tra Europa e Stati Uniti questi ultimi siano in vantaggio. Risale al 1986 la diagnosi di Jean Baudrillard per cui vivere un’attualità perenne (come negli Stati Uniti) è una delle differenze tra i due blocchi dell’Occidente. Più vecchio di così, invece, è la denuncia che gli americani non sappiano analizzare né concettualizzare. Per il filosofo francese, pare perfino che non se ne preoccupino. Ma per noi europei è importante, anche alla luce del tramonto sia degli Stati Uniti che dell’Europa.
La questione dell’analisi o della concettualizzazione assume un ruolo diverso specialmente oggi, in una società pervasa dai social network e di fronte all’ondata di scetticismo anti-scientifico crescente. In molte delle mie classi, per esempio, si è rivelato difficile tentare di dire qualcosa di contro-culturale su comunicazione e influencer, un tema e una figura determinanti per comprendere meglio il nostro tempo. Sono state occasioni, quelle, in cui sembrava essersi ricostituita un’incomunicabilità tra le generazioni simile a quella di cui aveva scritto Serra. In un certo senso, sento anche che l’errore potrebbe essere stato mio, come l’azzardo di «parlare di Pia a Pia», per usare un’espressione che ricorre in quello stesso libro per descrivere la tentazione paternalista.
La verità è che la mia generazione e quella di poco successiva condividono lo scioglimento (la cui diffusione è precedente alla pandemia) dei classici rapporti tra le dimensioni pubblica, privata e comune (con un appiattimento durante i mesi di lockdown sulla sola sfera privata). Non abbiamo fatto in tempo a conoscere una società basata sui corpi intermedi, ma ci siamo ritrovati nel vortice del cyberspazio quale privilegiato, se non unico, luogo di auto-espressione. È già questo il carattere tutto sperimentale di una generazione e di una classe docente.
Non abbiamo fatto in tempo a conoscere una società basata sui corpi intermedi, ma ci siamo ritrovati nel vortice del cyberspazio quale luogo di auto-espressione. È già questo il carattere tutto sperimentale di una generazione e di una classe docente
Non che intorno ci siano macerie. In realtà la scuola resiste, ma c’è il problema di quale scuola si parla. Un anno e mezzo dopo, la sensazione è che essa non possa rinunciare alla cura della sfera comune, come la stessa introduzione della didattica a distanza ha in effetti confermato. Alla scuola non resta che proporsi come luogo di esercizio alla conversazione (che Pierre Sansot distingue dalla chiacchiera), ossia a una pratica che «non dissimula la preoccupazione di esistere, le sfortune degli uomini e la propria miseria interiore» ma al tempo stesso «non sovraccarica di tormenti le spalle dei nostri simili». Non c’è scuola che sussista senza le mediazioni che la rendono tale: la perorazione in classe delle ragioni dei docenti, la perorazione negli organi collegiali delle ragioni degli studenti.
Parlare di una continuità assoluta tra le generazioni può essere avventato. Ma ciò che a mio avviso è evidente nell’inedito temporale in cui ci troviamo è l’incarnazione di un’ontologia debole, una teoria e una pratica dell’indebolimento personale e collettivo che le ragazze e i ragazzi conoscono anche prima di leggerla sui libri grazie a docenti che non si lasciano affossare dalle scadenze della programmazione. Come insegnanti, abbiamo di nuovo l’onore e l’onere di permettere a una generazione di esprimere le proprie persuasioni prima che assumano direzioni incontrollate. Quando uno studente mi raccontò di aver ricevuto la cresima, si affrettò a precisare che non fosse a causa di una fede, ma la conseguenza del suo desiderio estetico di sposarsi con rito cattolico, in futuro. Ciò che ho scoperto quel giorno era la resistenza del rito: come un’ora di lezione, come il passaggio all’età adulta.
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